La cooperazione internazionale contemporanea di "solidarietà", in opposizione alla "cooperazione di interesse economico e politico"

Antonino Colajanni

Università di Roma “La Sapienza”

Table of Contents

L’idea della "solidarietà" nella storia sociale e politica europea
Nascita e prime iniziative della Cooperazione Internazionale allo Sviluppo
Le prime perplessità e le critiche alle idee e pratiche dello sviluppo come trasferimento tecnico-economico
La lenta introduzione dell’idea della "solidarietà" in alcuni documenti delle Istituzioni Internazionali dello Sviluppo
Un attore efficace della nuova cooperazione internazionale di interesse non economico: le Organizzazioni Non Governative
Osservazioni conclusive
Riferimenti bibliografici

L’idea della "solidarietà" nella storia sociale e politica europea

Ci sono parole[1], concetti, idee, che attraversano i secoli della storia dell’uomo e sottolineano le radici profonde della socialità umana, disegnandone al tempo stesso le specificità e quei caratteri che sono stati e sono centrali, originali, per la specie. Una di queste parole-idee-concetti è senza dubbio quella di "solidarietà". Il termine allude alla natura relazionale, multipla, scambievole, co-ordinata, caratterizzata dal "mutualismo" (lo scambio multiplo, non solo di beni, ma anche di servizi, di lavoro, di emozioni, di miti, di simbologie e di rituali) delle attività degli uomini in un gruppo sociale più o meno ampio. Enfatizza i "legami" che vincolano tra loro i soggetti di una specie che è "sociale" per eccellenza. In questo intervento cercherò di ricostruire il lungo cammino di questa importante "idea-concetto" a partire da tempi remoti, fino alla sua parziale – e spesso occasionale – introduzione nel vocabolario e nelle pratiche di quella attività di promozione del "miglioramento delle condizioni di vita di società esterne all’Occidente" che va sotto il nome di "Cooperazione Internazionale allo Sviluppo". In tal modo questa innovazione relativamente recente ha contribuito a disegnare una specie di "altra faccia dello Sviluppo", diversa e in molti sensi opposta alla "cooperazione di trasferimento tecnologico e di interesse economico e politico", che invece ha dominato per lungo tempo ed è apparsa e riapparsa periodicamente tra le attività delle relazioni internazionali. Naturalmente, si tratta di una innovazione nel linguaggio, nelle espressioni correnti in un buon numero di documenti ufficiali. Ma le parole possono avere una loro efficacia trasformativa, nei tempi medio-lunghi.

In età moderna, fin dalla seconda metà del ‘700 e poi per tutto l’800 il concetto di "solidarietà" si accompagnava con l’idea di "sostegno reciproco", di "convivenza". Una solida tradizione laica enfatizzava l’importanza di questa idea per la società umana. L’accento era posto soprattutto sui "vincoli", sulle norme, sulla reciproca utilità di comportamenti co-ordinati, di attività suddivise in modo complementare tra diversi individui di un gruppo esteso. E del resto una quantità di studiosi di archeologia preistorica e protostoria hanno sostenuto con buone argomentazioni e ineccepibili prove che a partire della storia remota del genere umano l’"altruismo"[2], il "sostegno reciproco", la "mutualità", hanno creato vantaggi concreti per quelle comunità che li hanno adottati; e nel processo di selezione a partire dai lontani ominidi, hanno finito per prevalere le comunità dotate dei menzionati caratteri. Questa attività di "collaborazione intensa" all’interno dei gruppi più o meno ampi si accompagnava a frequenti forme di aggressività e violenza extra-comunitaria; mentre i conflitti interni – frequenti e continui – venivano regolati con sistemi "morali", o normativi, accompagnati da sanzioni amministrate collettivamente. Come dire che il conflitto e la collaborazione (ai due livelli diversi) hanno segnato la lunga storia del genere umano, in equilibrio a volte precario tra loro. Sono state quindi in buona parte accantonate le teorie, come quella di Robert Ardrey (1968) che facevano dell’uomo un essere "naturalmente", ed esclusivamente, disposto all’aggressività, alla continua competizione, alla guerra, allo sterminio dei suoi simili.

Anche in Italia, il "mutualismo", le forme di "coalizione sociale", hanno avuto una grande importanza tra Ottocento e Novecento, nella tradizione del movimento operaio. Il bel libro di Sandro Antoniazzi, Marco Carcano e Sergio Zaninelli, dedicato al mutualismo (2016), ricostruisce lo sviluppo delle "società di mutuo soccorso" prima e dopo la nascita dello Stato unitario. Molto ricco di dati, anche, sull’argomento, il libro del 2005 di Maria Grazia Meriggi, Cooperazione e mutualismo.

Nel suo saggio La solidarietà. Storia di un’idea (2012), Marie-Christine Blais ha ricostruito il grande periodo francese della seconda metà dell’800, nel quale sono state elaborate ricche riflessioni sul concetto di ‘solidarietà’; ed ha messo in evidenza un personaggio come Léon Bourgeois, il brillante politico che nel 1896 scrisse un prezioso libretto sulla "solidarietà", nel quale il termine-concetto menzionato assume il valore di "dovere sociale" e di "debito sociale", ed è parte fondamentale della teoria generale dei diritti e doveri dei cittadini, dell’individuo nella società, alla luce dell’idea della reciproca dipendenza di tutti gli esseri viventi. Tra i libri di commento e analisi del lavoro di Bourgeois va ricordato quello di Serge Audier, Léon Bourgeois fondes la solidarieté (2007). Questo importante politico francese esercitò una grande influenza negli anni successivi; per esempio, su Célestine Bouglé, che nel 1907 pubblicò un libro sul Solidarismo, e anche sul fondatore della sociologia Émile Durkheim, che scrisse il suo famosissimo libro La divisione del lavoro sociale (1893), utilizzando alcuni suggerimenti di Bourgeois. E la posizione teorica di Durkheim è tutta incentrata sui due tipi di "solidarietà" propri dell’umana socialità (solidarietà "meccanica" e solidarietà "organica"), che sono accompagnati dalla natura giuridica e sanzionatoria della vita in comune. Un altro importante studio sulla storia dell’idea di solidarietà in Europa è quello di Steinar Stjerno, Solidarity in Europe. The history of an idea (2005). Ma tra gli altri "fondatori" dell’idea centrale della "solidarietà" come orientamento di base dell’umana convivenza conviene anche citare Maurice Blondel, al quale deve molto la tradizione cattolica, almeno per il suo importante volume, del 1893, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della pratica (1993), nel quale il vinculum associativo è la prassi insostituibile della specie umana e la "cooperazione per il bene sociale" il principio di solidarietà universale che contrasta la concezione e le pratiche egoistiche della persona come individuo atomistico. E del resto anche il filosofo tedesco Max Scheler può essere considerato un fondatore di una linea di pensiero che per certi aspetti corre fino ad Heidegger, nella quale le "relazioni sociali" sono basate sulla prossimità, sull’affinità, sulle forme di "simpatia", e sono soprattutto co-azioni (Scheler 2008. 2010).

Alla fine dell’800, anche la Chiesa Cattolica ufficiale ha lungamente elaborato, in documenti formali, il detto tema, con accenni e connotazioni soprattutto "morali", se non religiose. Di fatto, in quel periodo la "solidarietà" era soprattutto praticata, gestita e proclamata, all’interno della tradizione socialista, del nascente movimento operaio. E non è quindi inopportuno pensare che una qualche influenza di questi nuovi movimenti sociali abbia esercitato, in relazione oppositiva, la sua forza nei confronti della famosissima Enciclica Rerum Novarum di Papa Leone XIII (1891), che al tema indicato dedica una grande attenzione, reagendo così con argomenti morali alle impostazioni materialistiche di fine secolo. Secondo quanto sostenuto nell’Enciclica, i protagonisti sociali sono i gruppi ristretti (famiglia, vicinato, parrocchia, comunità locale) che sono dominati dai valori dell’integrazione sociale; essi debbono essere in buona misura autonomi, autosufficienti, materialmente e spiritualmente. Allo Stato tocca il compito degli eventuali "interventi sussidiari". Nel 1931 Papa Pio XI, nella sua Enciclica Quadragesimo anno ribadisce i punti della Rerum Novarum e critica fortemente lo spirito di competizione e lo scatenato individualismo che si andava manifestando nell’organizzazione sociale generale, dominata dalla centralità del "soggetto" individuale caratterizzato dalla volontà di possedere in modo esclusivo beni, individualismo sostenuto dal capitalismo avanzato. Altri concetti proposti sono quello di "giustizia" e di "carità sociale". Anni dopo, nell’Enciclica Mater et Magistra (1961), Papa Giovanni XXIII introdusse in molti passi l’idea e il valore di orientamento all’azione, propri della "solidarietà". Anche Papa Paolo VI, nell’Enciclica Populorum Progressio (1978), dichiarava che il concetto di "solidarietà" era un valore-chiave per la Chiesa, assieme alla lotta contro la miseria e la fame nel mondo. Infine, un arricchimento e approfondimento dell’idea solidale come chiave della convivenza umana, lo troviamo nella Laborem exercens (1981) e poi nella Centesimus Annus (1991) di Papa Giovanni Paolo II.

Le scienze sociali (la sociologia innanzitutto) hanno dedicato attenzione e accurate analisi al tema della solidarietà come base della socialità umana. Già in anni lontani Mark Baldwin affrontava seriamente il tema (1910). In anni più recenti Art Evans ha riletto criticamente Durkheim, insistendo molto sul fatto che la solidarietà riguarda non solo le pratiche ma al tempo stesso anche le credenze e i valori, pur non essendo facile investigare empiricamente il tema (1977). E Hilary Silver ha approfondito efficacemente l’argomento, legando il concetto di "solidarietà" a quello che sostanzialmente è il suo opposto: la "esclusione sociale" (1994). Jnanabrata Bhattacharyya, un socio-antropologo di origine indiana e Professore all’Università di Southern Illinois, ha dedicato un saggio di impegno teorico sul concetto di Community Development, sostenendo che è necessario "ripensare" questo concetto, non limitandosi all’analisi delle formazioni sociali pre-industriali, ma identificando un particolare tipo di relazioni sociali caratterizzate dalla "solidarietà" (una identità condivisa e un comune codice di condotta) e dalla "agentività" (agency: la capacità di un gruppo umano di ordinare e decidere sul proprio mondo vitale, in antitesi alla "dipendenza" da altri); a ciò si aggiunge la capacità di risolvere da sé la maggior parte dei problemi (self-help), la coscienza dei propri "bisogni di base", e la partecipazione ad azioni comuni (Bhattaxharyya 1995). Inoltre, si sono moltiplicate le ricerche teoriche e pratiche sulla "natura" assai particolare delle relazioni scambievoli, collaborative e mutue, tra gli esseri umani nei gruppi di piccole e medie dimensioni. Per esempio, risulta in proposito eccellente lo studio di Diego Gambetta, del 1989, sulla importanza della "fiducia", dell’affidamento alle azioni e pensieri degli altri, come fondamento dei rapporti tra gli individui.

Ma intanto, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale si verificava – prima lentamente poi tumultuosamente – un cambiamento radicale nelle teorie sociali, nella priorità dell’economia e della tecnica su tutte le azioni ed i comportamenti umani. Lo sviluppo del capitalismo industriale tendeva a mettere a lato, a trascurare, ogni discorso sulla solidarietà, l’aiuto ai deboli, l’interdipendenza tra soggetti, l’esistenza di comunità più o meno coese. L’individualismo e la ricerca della ricchezza personale diventarono leggi universali, con la diffusione della "globalizzazione" (intesa sommariamente come una estensione senza limiti del mercato unico mondiale nel quale si diffondevano i beni prodotti soprattutto dalle nazioni ricche, una circolazione senza limiti di idee e informazioni, che poteva anche avere rilevanti effetti positivi, una grande mobilità di persone tra i diversi paesi, una circolazione illimitata delle risorse finanziarie, creando un livello diverso da quello della cosiddetta "economia reale"). Per la solidarietà non ci fu più posto per lunghi decenni. L’individuo in crescita inesorabile, la competizione, la "eliminazione" o marginalizzazione delle "economie deboli", si diffusero ovunque, fino a cristallizzarsi – in anni recenti – nel "neo-liberismo" di origini soprattutto statunitensi, che incurante delle povertà altrui, della contaminazione ambientale, dei diritti dei meno fortunati, ha invaso l’economia-mondo contemporanea. Numerosi saggi di riflessione molto approfondita, come per esempio quelli recenti del filosofo e sociologo polacco Zigmunt Bauman, hanno trattato questa tendenza universale verso il nuovo "individualismo" e la perdita dei legami "comunitari" in un gran numero di saggi, tra i quali i più rilevanti sono: Voglia di comunità (2007), La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza (2010), e infine La solitudine del cittadino globale (2014).

Dopo una ventina d’anni di individualismo esasperato, di visione competitiva e di perdita di rilievo dei fatti "comunitari" e collettivi, è esplosa intorno all’anno 2000 una profonda crisi, produttiva e finanziaria, che ha contribuito a polarizzare radicalmente le posizioni sociali in molti paesi del mondo: i poveri sempre più poveri, la quasi scomparsa delle classi medie, i ricchi sempre più ricchi. In questo nuovo contesto, come naturale reazione, è riemersa lentamente l’idea della "solidarietà" tra individui, tra popoli e tra paesi. Il tema è ritornato tra gli argomenti diffusi di elaborazioni e analisi politico-sociali, come relazione associativa e di reciproco sostegno, che reagiva alla grande crisi mondiale. Un esempio di ciò è il volume, del 2000, Globalization from below. The power of solidarity , a cura di Jacob Brecher, T. Costello e B. Smith. Importante anche un saggio di Jackie Smith, del 2002, che affronta il complesso problema della insorgenza di numerose organizzazioni di base, movimenti sociali associativi, in molti paesi del mondo, per far fronte alla crisi. Tra queste posizioni favorevoli ai nuovi movimenti sociali si segnala il precoce scritto, in qualche modo "profetico", di Ivan Illich, del 1974, La convivialità. Una proposta libertaria per una politica dei limiti dello sviluppo; il saggio è stato ripreso e arricchito dal movimento francese proposto e coordinato da Alain Caillé, che ha prodotto un interessante documento, il Manifesto convivialista. Dichiarazione di interdipendenza (2013). A questo "Manifesto" è dedicata la raccolta di saggi curata da Francesco Fistetti (2014), con lo stesso titolo. Non va dimenticato che Alain Caillé aveva scritto qualche anno prima un denso ed efficace libretto dedicato espressamente alla ‘critica dell’economia’: Critica della ragione utilitaria (1991) . L’argomento appena citato viene anche trattato velocemente ma efficacemente da Adriano Favole nel capitolo terzo del suo recente volumetto, La bussola dell’antropologo. Orientarsi in un mare di culture (2015). Il titolo del capitolo è il seguente: “Oltre l’ ‘homo oeconomicus’”; e il paragrafo più interessante è: “Elogio del Convivialismo”. Tutti questi scritti riprendono e rielaborano le vecchie considerazioni sulla convivenza pacifica e il sostegno scambievole tra individui e comunità, attitudini e attività che possono garantire una maggiore eguaglianza e un successo collettivo dei gruppi umani. Uno dei migliori e più ricchi volumi sul tema, visto nei suoi aspetti sociali, politico-economici e giuridici, è il recentissimo piccolo prezioso contributo del compianto giurista Stefano Rodotà Solidarietà. Un’utopia necessaria (2017). In Italia altri, tra giuristi e sociologi, hanno trattato il tema, come Stefano Giubboni (2012), e Sergio Ricossa, con un saggio per la verità fin troppo ironico su un argomento che meriterebbe maggiore serietà di intenti analitici (2014).

Sulla base di quanto detto a proposito delle alterne vicende dell’idea e delle pratiche della solidarietà, possiamo adesso passare ad esaminare un campo di esperienze e attività che ha caratterizzato e continua a governare, in modi alquanto modificati, i rapporti tecnico-economici tra i popoli, i gruppi sociali, i poteri. Si tratta del campo della Cooperazione Internazionale allo Sviluppo che solo di recente ha accettato di discutere e cercare di praticare il tema menzionato, soprattutto in alcuni attori privilegiati delle iniziative volte al miglioramento delle condizioni di vita delle società marginali, che comunque non sono parte del "centro del mondo". Ricostruiremo l’accidentato cammino della cooperazione internazionale e registreremo soprattutto i cambiamenti nel linguaggio, meno nelle attività concrete, che sono avvenuti a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Nascita e prime iniziative della Cooperazione Internazionale allo Sviluppo

Alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti e l’Europa hanno avuto modo di riflettere sulla pluralità delle nazioni, osservate e contattate sul posto dalle truppe in guerra, e di valutare le clamorose differenze nella complessità sociale, nell’economia (in genere povera rispetto agli standard dei paesi vincitori del conflitto), nel possesso di strumenti tecnici, nei costumi che sembravano essere "arretrati", inadeguati a un processo di miglioramento economico, "freno" per ciò che allora sembrava ovvio e dovuto: lo "sviluppo" in senso occidentale. Il giudizio negativo e il senso di "inferiorità" che venivano attribuiti alle molte società coinvolte nel conflitto, e da esso spesso impoverite o costrette a spostamenti forzati, contribuì al lancio di una campagna mondiale, diretta dalle Istituzioni Internazionali, e volta alla diffusione ed estensione delle conquiste tecniche ed economiche dell’Occidente in tutto il mondo, oltre che alla stabilizzazione dei rapporti finanziari e degli scambi tra i paesi ricchi del pianeta.

Le strategie planetarie volte al "miglioramento delle condizioni di vita" delle società estranee all’Occidente hanno inizio – com’è noto - con la Conferenza di Bretton Woods (1944) che stabilì regole, misure, metodi, dell’economia internazionale post-bellica. Sostanzialmente è stato un incontro internazionale, al quale parteciparono 730 delegati in rappresentanza di 44 nazioni, dedicato in massima parte a creare un assetto generale ai rapporti (economici e finanziari) tra i paesi appena usciti dalla guerra. È un momento cardinale nella storia del genere umano: la creazione di un "Nuovo Ordine Internazionale" che durerà molti decenni, diretto – di fatto – dagli Stati Uniti, con l’Inghilterra in posizione non centrale. I caratteri principali degli interventi del sistema internazionale sono: a. La concentrazione sugli aiuti tecnici; b. Il mezzo scelto per questi interventi è l’erogazione di prestiti consistenti a bassissimi interessi per i governi in parte ancora coloniali. Intanto, vengono creati due strumenti istituzionali adatti allo scopo: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Internazionale per lo Sviluppo, qualche anno dopo trasformata nella Banca Mondiale, che presto diverrà il "santuario dello sviluppo", i cui metodi, obiettivi, modelli di progetto, e fondamenti teorico-metodologici saranno i punti di riferimento per tutti i paesi emergenti e per i programmatori dello sviluppo dei paesi ricchi. Di fatto, gli investimenti finanziari e tecnici per i popoli e le società lontane lasciano comprendere presto il carattere, spesso non esplicito, di attività volte alla realizzazione di interessi economici ed economico-politici dell’Occidente, che oggi invece appaiono assolutamente evidenti. Questi interessi sono: a. La sottrazione di materie prime alle società marginali; b. L’uso di forza-lavoro a basso costo per i processi di lenta industrializzazione su modelli euro-americani; c. La preparazione dei nuovi mercati locali per i prodotti dei paesi "donatori", la cui domanda sarà influenzata dalla diffusione dei nuovi bisogni creatisi in seguito al contatto. Gli interessi dei paesi "donatori" sono evidenti – tra l’altro – nel fatto che migliaia di esperti e tecnici euro-americani trovano così un lavoro ben pagato, e decine di grandi imprese, società di esecuzione dei progetti, dominano il campo, talvolta inserendosi direttamente nel processo di negoziazione, di decisione e di scelta di luoghi, progetti, paesi. Infatti, dominano in questa fase gli impegni nella costruzione di infrastrutture per i paesi che si definivano "arretrati" (porti, strade, ferrovie, fabbriche di vario genere, e anche dighe). Di fatto, l’ammontare delle risorse finanziarie destinate, attraverso le Istituzioni Internazionali, all'"aiuto per lo sviluppo" era assai rilevante nel 2012: nel complesso circa 126 miliardi di dollari come Aiuto Pubblico allo Sviluppo, a cui bisogna aggiungere l’insieme delle risorse private, gestite normalmente dalle Organizzazioni Non Governative. Ma la crisi finanziaria mondiale del 2007-2008 ha ridotto queste cifre. In parte gli investimenti si sono concentrati su ‘interventi d’urgenza’ (emergency: crisi ambientali, siccità, epidemie, disastri, guerre con spostamenti massicci di popolazione), montati molto rapidamente in contesti poco studiati nei dettagli prima dell’azione. A questo tema è dedicato il volume del 2010: Contemporary states of emergency, curato da Didier Fassin e Mariella Pandolfi, che vale la pena di citare per la ricchezza e l’approfondimento delle ricerche e delle esperienze che ne stanno alla base. Un buon saggio critico sui difficili problemi degli interventi umanitari, con un approfondito studio di caso in Cambogia, è quello recente di Chiara Costa e Rossella Tisci del 2017.

Per una critica, basata sulle tesi e le esperienze di molti e diversi paesi "in via di sviluppo", alla tradizione instaurata con gli Accordi di Bretton Woods, può farsi un riferimento alle opere collettive facenti parte della collezione Rethinking Bretton Woods (Griesgraber e Gunter 1995). E per una descrizione e valutazione dei dibattiti internazionali alla Conferenza è opportuno anche ricorrere al dettagliato studio di Raymond F. Mikesell, The Bretton Woods debate: a memoir (1994), e al ricco e documentatissimo volume di Benn Steil che si sofferma meticolosamente sui contrasti di opinioni – anche aspri – che hanno avuto luogo in quella sede: The battle of Bretton Woods: John Maynard Keynes, Henry Dexter White, and the making of a New World Order (2014).

Sul piano teorico, e con consistenti effetti sulla pratica delle azioni di sviluppo, comincia a diffondersi, negli anni ’50-’60, una nuova parola-chiave che sarà presto accettata come "concetto-guida" in questo campo: si tratta del concetto di "crescita" (growth) che riesce a monopolizzare per decenni l’attenzione di economisti, tecnici, politici. Un sistema economico (compresi anche quelli dei paesi in via di sviluppo) “può svilupparsi solo se cresce, si incrementa, la sua produzione di beni e servizi”. Questo è diventato il punto di orientamento e di valutazione di ogni economia. Una misurazione molto settoriale, relativa ai beni prodotti, è stata concentrata in un indicatore che tende a classificare le economie, quello del "Prodotto Interno Lordo" (PIL), che comprende la somma dei beni e servizi. Recentemente si è sviluppato un dibattito aspro tra diversi economisti e politici ed è stata messa in discussione la "crescita" come unico misuratore dell’efficienza di un’economia. Questo dibattito coincide in buona parte con le critiche all’economia e allo sviluppo meramente economico. Hanno avuto un grande successo le posizioni proposte da Serge Latouche in La scommessa della decrescita (2007) e Breve trattato sulla decrescita serena (2008). Il libro più interessante mi sembra però quello recente di Mauro Gallegati, Acrescita. Per una nuova economia (2016). Una efficace ricostruzione del dibattito internazionale sulla "crescita" nel pensiero economico ed ambientale contemporaneo, si trova nel saggio di Alexander Perez-Carmona, ‘Growth: a discussion of the margins of economic and ecological thought’ (2012). Di fatto, la concentrazione sulla "crescita" come dimensione fondamentale nella valutazione della “salute” di un sistema economico finisce per trascurare quell’altra dimensione che a molti appare come la "dimensione trascurata", e cioè quella della redistribuzione.

Ma non manca un altro aspetto, che accompagna gli interessi economici: l’elemento della "pedagogia verticale" e delle presunzioni "formative" dell’Occidente verso il cosiddetto Terzo Mondo. Tutto ciò era sostenuto e giustificato, a partire dall’Ottocento, con i concetti e le teorie del "Progresso" e dello "Sviluppo", concepiti come processi costituiti da "tappe evolutive" e successive, necessarie e obbligatorie, anche se percorse con rapidità molto diversa dalle diverse società, nella storia dell’uomo. C’è insomma una posizione presuntuosa, un che di "missionario" in questi interventi, accompagnati non a caso dalle missioni, cattoliche e protestanti, che si allineavano, nei primi decenni, sulle teorie dello sviluppo che venivano elaborate negli anni ’50-’60. Questa idea della "superiorità" totale del mondo euroamericano era stata sanzionata definitivamente nel notissimo discorso di insediamento del Presidente americano Truman, nel 1949, nel quale viene enfatizzata la decisiva differenza tra "Popoli Sottosviluppati" e "Popoli Sviluppati", e non v’è traccia dell’idea – abbastanza ovvia a dire il vero – che c’è un tertium quid possibile: il rischio di divenire "Popoli Sovrasviluppati", eccedendo nella realizzazione dei principi della crescita economica senza limiti. Nei documenti ufficiali ispirati dagli Accordi del 1944 non v’è dunque traccia dei concetti e dei metodi della "solidarietà" umana, della "condivisione", delle azioni "umanitarie", né d’altronde di una forma di "pedagogia orizzontale", che pure – come s’è visto – potevano beneficiare di una lunga tradizione nel pensiero europeo. Insomma, in quest’epoca di fondazione delle prime realizzazioni dell'"aiuto allo sviluppo" sono la tecnica e l’economia della produzione al centro dell’attenzione e delle pratiche dei paesi ricchi.

Le prime perplessità e le critiche alle idee e pratiche dello sviluppo come trasferimento tecnico-economico

Nei tardi anni ’60, dopo quasi vent’anni di "aiuto allo sviluppo", cominciano a manifestarsi – nelle grandi istituzioni del sistema internazionale come in una serie di scritti critici di studiosi e commentatori – delle perplessità sulle teorie e sui progetti dedicati soprattutto al Terzo Mondo. Vengono notati e stigmatizzati i primi insuccessi degli interventi condotti secondo i metodi sopra accennati. L’inefficacia di molti progetti, le sottrazioni e le distrazioni dei fondi, nonché la loro dispersione, le frequenti ruberie da parte delle autorità locali e le resistenze dei destinatari degli interventi, le incomprensioni, producono le prime riflessioni critiche e le istanze correttive, che del resto vengono anche dai governi africani e asiatici che, ormai nell’epoca della decolonizzazione, a partire dalla Conferenza di Bandung (1955) avevano cominciato a sollevare critiche all’Occidente e alle logiche che governavano gli aiuti per lo sviluppo. La prima manifestazione ufficiale di dissenso e di critica ai vecchi modelli dello sviluppo si trova nel famoso Rapporto Pearson, del 1969; il documento aveva un sottotitolo significativo e bene augurante, che era in realtà inadeguato a ciò che si faceva in quegli anni, e precorreva semplicemente i tempi (‘Associati nello Sviluppo’). Lester Pearson, Primo Ministro del Canada dal 1963 al 1968 (e Premio Nobel per la Pace nel 1957) era stato incaricato dal Presidente della Banca Mondiale Robert McNamara di nominare una Commissione Internazionale incaricata di proporre soluzioni correttive, poi confluite nel suo "Rapporto". Il documento dichiara apertamente che la promozione dello sviluppo dovrà – in futuro – fare più di quanto non abbia fatto nel passato, fondandosi su una attiva e genuina collaborazione partecipativa tra le nazioni ricche e quelle povere, manifestandosi come una espressione genuina della cooperazione tra paesi, basata sulla coscienza della loro interdipendenza. E aggiunge, usando per la prima volta nel contesto dell’economia internazionale una espressione dalla quale sono partite le nostre riflessioni e che verrà presto ripresa: l’idea della necessaria solidarietà umana, e quella della opportunità di un self-sustained development. In sostanza dovrebbe esserci non solo una maggiore "quantità" di aiuti ma soprattutto un loro miglioramento organizzativo e amministrativo, con una caratterizzazione "sociale" esplicita.

A partire dal Rapporto Pearson buona parte delle teorie dello sviluppo passano così dall’"aiuto tecnico" (dedicato essenzialmente alla costruzione di infrastrutture e al trasferimento di strumenti e metodi di lavoro del mondo occidentale) allo "scambio" tra soggetti sociali che trovano forme di "complementarietà". Dunque, dalla fine degli anni ’60 la cooperazione internazionale caratterizzata dal mero interesse economico assume sempre minore importanza, mentre crescono gli investimenti destinati all'"altra faccia dello sviluppo". Gli elementi non strettamente economici (ambiente, aspetti sociali, giustizia, eguaglianza, attenzione alle forme locali di dinamica economica a livello micro, poi democrazia) iniziano ad apparire nei documenti ufficiali dello sviluppo. Un passo avanti decisivo fu ancora realizzato dal Presidente della Banca Mondiale, Robert McNamara, il quale nel suo Address to the Board of Governors del 1973, tenuto a Nairobi, introdusse come tema centrale delle strategie dello sviluppo il concetto di povertà (distinguendo "povertà assoluta" e "povertà relativa"), che per quanto possa sembrare strano non era apparso quasi mai nei documenti e nei progetti di promozione dello sviluppo. Gli interventi della cooperazione internazionale, dunque, avrebbero dovuto contenere strategie efficaci di contrasto contro la povertà. Lentamente, anche come effetto di questa attenzione specifica alla "centralità" del tema della povertà, si manifestarono le prime riflessioni sul fatto che la "povertà originaria" (insufficienza alimentare, estrema carenza di strumenti tecnici, mortalità materno-infantile molto elevata) non è mai esistita tra le società dell’uomo; i riaggiustamenti demografici effetto della riduzione dei mezzi di sostentamento, gli spostamenti dai luoghi dove le risorse erano esaurite verso altri con maggiori risorse, contribuivano a riequilibrare il quadro vitale delle comunità umane. La povertà, quindi, comincia ad apparire il più delle volte come "derivativa" piuttosto che originaria. Le società umane si impoveriscono continuamente in loro parti, come effetto della pressione, emarginazione ed esclusione, da parte di altre società più forti. La lotta contro la povertà comincia così ad assumere un nuovo carattere: è un dovere morale delle società ricche, che spesso hanno causato l’impoverimento di altre, ed è dunque atto di "responsabilità" assumersi il compito di programmare ed eseguire forme di "aiuti", che dovrebbero tuttavia essere dosati, formulati, concepiti e gestiti secondo i caratteri e le aspettative delle società locali coinvolte e con la loro attiva partecipazione. Nello stesso anno 1973 il Rapporto Brandt sottoscrive una visione critico-sistemica del mondo dominato da forme di sviluppo non equilibrate e dalla netta opposizione tra Nord e Sud. Infine, l’importantissimo documento del Rapporto Brundtland (Ruffolo 1988), propone nel 1987 la fortunata espressione di "Sviluppo Sostenibile", secondo la quale la questione del consumo delle risorse e del degradamento ambientale viene segnalata come effetto concomitante di qualsiasi intervento per lo sviluppo. I progetti e gli interventi dovrebbero dunque garantire i diritti delle generazioni future, salvaguardando l’ambiente; dovrebbero basarsi su modesti ma efficaci apporti tecnico-economici dall’esterno, al di là dell’aiuto globale che può richiedere la eventuale passività locale, e dovrebbero anche basarsi su apporti delle controparti e dei beneficiari, in termini tecnici di saperi e pratiche consolidate da sostenere con limitati appoggi e in termini anche finanziari (gli interventi per lo sviluppo come azioni non "totali" ma "integrative" e in parte auto-finanziate). Il Rapporto introduce l’importantissima nozione di "Beni Comuni Universali" (la terra produttiva, le foreste, l’atmosfera, le acque) che dovrebbero imporre una cura e un rispetto da parte di tutte le nazioni. Nonostante le sue innovazioni e gli apporti correttivi della vecchia tradizione nata a Bretton Woods, il concetto di "Sviluppo Sostenibile" è stato oggetto di critiche recenti all’interno del filone "critico-radicale" anti-sviluppista che si è progressivamente esteso negli ultimi decenni; e questo perché in molti casi l’espressione citata è divenuta una specie di "copertura ingannevole", una concessione a una moda del momento, per esibire la "bontà" di certi interventi economici. In ogni caso, si afferma solida ed efficacissima, l’idea dei necessari "Limiti allo Sviluppo", argomento che venne per primo trattato con intensità da Fred Hirsch nel suo volume Social limits to growth,del 1976. Queste critiche assumono talora un severo dissenso "tecnico", fatto dall’interno, da parte di operatori e consulenti molto esperti del mondo dello sviluppo, come per esempio nel bellissimo libro di Judith Tendler, Inside foreign aid (1975). Una testimonianza drammatica e molto critica al tempo stesso, è quella di Brigitte Erler, L’aide qui tue: récit de ma dernière mission d’aide au dévéloppement (1987). La Erler, nel 1983, al ritorno da una deludente missione di tre settimane in Bangladesh, si dimise senza preavviso dal suo posto di Capo Servizio nel Ministero della Cooperazione Economica della Germania. E la sua descrizione degli errori, delle inefficienze e delle retoriche della cooperazione tedesca è rimasta come un punto fermo nelle critiche argomentate, competenti e appassionate, dell’aiuto per lo sviluppo.

Dunque, il cammino nel processo di "de-tecnologizzazione e di de-economizzazione" delle iniziative di promozione dello sviluppo è continuato, lento e inarrestabile. Una innovazione molto importante è quella proposta dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) nel 1990, con il famoso Rapporto sullo Sviluppo Umano, gestito per una massima parte da economisti, tecnici ed esperti in scienze sociali non euro-americani, ma asiatici e africani. Il Rapporto, da quella data, viene pubblicato ogni anno e dedicato a un tema diverso del mondo degli interventi per lo sviluppo. Appare un nuovo modo di classificare le economie-paese, al di là del consueto computo del Prodotto Interno Lordo (P.I.L.). Le società umane, nel corso dei loro incrementi o decrementi di ricchezza, vengono ordinate e classificate in una scala di valutazione che è dominata dall’idea non della "produzione di beni", ma della "Redistribuzione e del Reinvestimento" del reddito nazionale in certi settori-chiave. Viene proposto un "Indice dello Sviluppo Umano", che registra ogni anno le variazioni delle politiche economiche e sociali di un paese secondo tre Indicatori: a. Gli investimenti annuali nel campo della salute pubblica; b. Gli investimenti nel campo dell’istruzione e della formazione dei cittadini; c. Gli investimenti nel campo della libertà di informazione e di comunicazione (giornali, radio, TV). Sulla base delle variazioni annuali in questi Indicatori, che formano l’Indice di Sviluppo Umano, si potrà sostenere che un paese vede aumentare o diminuire la sua capacità di Sviluppo Umano, inteso come processo sociale globale e non settoriale (cioè non semplicemente economico). E anche il tema cruciale della "responsabilità morale" dei governi dei paesi ricchi e delle Istituzioni Internazionali, che si era manifestato in passato a tratti, spesso solo per accenni, viene ripreso a conclusione di questo processo di "de-ecomizzazione", assieme alla diffusione di idee come quella della "partecipazione locale". Mi sembra di grande importanza, in proposito, richiamare il volume curato da Philip Quarles van Ufford e Ananta Giri, del 2003, A moral critique of development. In search for global responsibilities. Seguendo i suggerimenti e le considerazioni critiche di questi autori, in tal modo potrebbero mutare radicalmente la funzione e le azioni concrete dello Stato, degli Enti Pubblici e delle istituzioni locali, nei confronti dei cittadini, miranti al miglioramento delle loro condizioni di vita. Insomma, le istituzioni pubbliche dovrebbero agire secondo principi e metodi riguardanti gli interessi generali, e non secondo le pressioni e la tutela di interessi delle imprese, delle industrie o delle multinazionali.

Questa progressiva attenuazione dell’economia formale, quantitativa, tutta centrata sulla "crescita", percorre inesorabilmente gli anni ’90. Un altro passo importante, che ha riconosciuto perfino enfaticamente la necessità di "mettere al centro dello sviluppo la gente e non le cose", fu la riunione di 117 capi di stato per il "World Summit for Social Development" a Copenhagen nel 1995. Un accordo internazionale sui punti centrali di questo processo di trasformazione della terminologia dello sviluppo, in corso da due decenni, riguardò la lotta alla povertà, gli sforzi per una piena occupazione e la "integrazione sociale". In quella occasione venne anche diffusa, e criticata, un’idea-concetto opposta alla ‘integrazione sociale’: quella di social exclusion (UN 1996). Gli effetti dei documenti prodotti dal citato Summit furono immediati e consistenti. Per esempio, in Italia la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Esteri organizzò nello stesso 1995, a Dicembre, un Seminario Internazionale in collaborazione con l’Università di Roma, dal titolo Risorse per lo Sviluppo Sociale, dedicato a temi generali e anche in particolare all’Etiopia e all’Eritrea. Sono intervenuti esperti e studiosi come Massimo Tommasoli, Marco Bassi, Mariano Pavanello, Francesca Declich, Luigi Solivetti, tra gli altri. Quasi tutti gli interventi hanno commentato, approfondito e applicato a casi concreti il fondamentale concetto di "Integrazione Sociale", inteso non tanto come "assorbimento" di estranei in un contesto sociale di accoglienza, o costruzione di equilibri stabili tra i diversi gruppi di una società, ma anche e soprattutto come una forma di "negoziazione reciproca" di norme, costumi, idee e pratiche tra gruppi diversi, basata sul riconoscimento reciproco e sulla coesione e collaborazione sociale.

Da quanto si è detto appare evidente che nel mondo delle Istituzioni Internazionali, e in parte anche dell’Accademia, va lentamente ma inesorabilmente declinando la centralità di un tempo, il potere quasi assoluto, degli economisti – e dell’economia più in generale - nella ideazione ed esecuzione delle attività di sviluppo. In realtà, è tutta l’economia formale, normativa, che viene messa in discussione. Già nel mondo cattolico, nel 1999, veniva pubblicato un interessante volume di autori vari, Umanizzare l’economia (Caselli et al. 1999). I temi affrontati sono: i rapporti tra morale ed economia, una società ‘a misura d’uomo’, Mercato e Stato tra "efficienza" e problemi etici, l’equità tributaria, l’occupazione tra le ragioni economiche, quelle politiche e quelle sociali, lo sviluppo e la redistribuzione del reddito, e così via. In questo volume la critica all’economia formale corrente è appena attenuata da alcune ragioni della produttività e dell’efficienza. Ma è stato a partire dall’importantissimo volume di Elinor Ostrom, Governing the Commons. The evolution of institutions for collective action (1990) che cominciarono a moltiplicarsi i saggi che presentavano gli aspetti economici come "incastrati" nelle istituzioni e nei costumi sociali, al di fuori di quella "autonomia" normativa che aveva dominato per decenni. Il tema dei "beni comuni", citato a proposito del "Rapporto Brundtland" del 1987, ha ripreso vigore in una quantità di scritti di grande impatto, come il recente libro del Premio Nobel per l’Economia nel 2014 Jean Tirole, Economia del bene comune (2017). Ma ricordo anche il vecchio brillante saggio di Carlo Donolo, ‘Affari pubblici. Sull’incontro tra capacità e beni comuni nello spazio pubblico’, del 1997. Fortemente collegato con la ridiscussione critica dell’economia formale è anche il tema della moral economy, al quale abbiamo appena accennato, che ha una letteratura assai estesa. Il saggio più importante, anche perché contiene una minuziosa ricostruzione storica, è quello di Norbert Götz, ‘Moral Economy’: its conceptual history and analytical prospects’, del 2015. Infine, gli studi e le ricerche sulla "economia informale" (soprattutto in Africa) hanno mostrato la necessità di rafforzare gli aspetti "sociali" dell’economia, attenuandone le pretese normative e generalizzanti, che spesso mostrano di sostenere la "priorità" dell’economia su tutti gli altri campi della vita di società in corso di trasformazione. Citerò solo, perché particolarmente vicino alla nostra tradizione di studi, il volume curato da Mariano Pavanello, Le forme dell’economia e l’economia informale, del 2008. Come si vede, l’attenuazione dell’importanza, una volta centrale, dell’economia, ha sostenuto la nuova impostazione della programmazione ed esecuzione degli interventi per lo sviluppo. Questo atteggiamento generale viene molto bene sintetizzato da Valerie Fournier nel suo saggio, Escaping from the economy: the politics of de-growth, del 2008. E del resto i volumi e i saggi su "l’altra economia" si sono moltiplicati negli ultimi decenni, a partire da un bel saggio abbastanza scettico del grande economista Charles Kindleberger, "Fattori sociali intangibili rilevanti per i processi economici" (1990) e soprattutto dalla ricerca di Manfred A. Max-Neef sulle "economie di base", elementari, volte a soddisfare le necessità primarie dell’uomo, viste come aspetti fondamentali - ma non unici - della vita sociale complessiva, del 1992. Ma come non ricordare anche il bel saggio di Amartya Sen, Etica ed Economia, del 2000, e il precedente libretto di Jean-Louis Laville, L’economia solidale, del 1998? E non va dimenticato, naturalmente, il contributo dell’economista Premio Nobel per l’Economia nel 2017, Richard Thaler, che aveva pubblicato nel 1991 un volume come Quasi rational economics, nel quale la tradizione della ‘behavioral economics’ si accompagnava ad alcune critiche molto severe all’economia formale e all’approfondimento di un grande vecchio tema: la frequente "irrazionalità dei processi decisionali in economia". E infine anche il denso volume di Des Gasper, The ethics of development: from economism to human development (2004).

Nonostante le accennate correzioni alle teorie e pratiche dello sviluppo, diffusesi a partire dagli anni ’60, e nonostante le rilevanti innovazioni teorico-pratiche della "nuova economia", la Banca Mondiale ha continuato ad essere sottoposta a critiche sostantive, come quella di Michele Alacevich, Le origini della Banca Mondiale. Una deriva conservatrice (2007). E prima, nel 1994, Susan George e Fabrizio Sabelli avevano pubblicato un’interessante e approfondita analisi del valore "simbolico" oltre che pratico della grande Istituzione di Washington . Per un quadro più generale e completo di tutta la storia dell’aiuto allo sviluppo, nei vari aspetti tra i quali anche in parte quelli appena accennati, vale la pena di ricordare il bel libro, denso di esempi e studi di caso, e scritto in un linguaggio giornalistico piano e scorrevolissimo, di William Easterly, Lo sviluppo inafferrabile (2006). L’assetto internazionale della cooperazione si è dunque stabilizzato in una sua nuova forma negli anni recenti, oscillando sistematicamente tra la tradizione di Bretton Woods e le innovazioni e correzioni terminologico-pratiche delle quali si è detto. Una ricca e competente trattazione del tema, che si occupa delle regole, dei soggetti attivi in questo campo, dei caratteri delle "politiche" relative, e dei giudizi che si possono dare sull’argomento, è quella che dobbiamo all’ottimo volume di Massimo Tommasoli, Politiche di Cooperazione Internazionale. Analisi e valutazione (2013).

La lenta introduzione dell’idea della "solidarietà" in alcuni documenti delle Istituzioni Internazionali dello Sviluppo

Ma torniamo agli anni ’80-’90 ed alle consistenti modificazioni nel linguaggio corrente e ufficiale dello sviluppo, e anche nelle azioni pratiche. Come s’è accennato, l’economia e la tecnica diventano progressivamente solo un aspetto – e non il più importante – delle iniziative per lo sviluppo. Gli aspetti sociali (organizzazione specifica dei ruoli sociali, regole, costumi) e quelli culturali (credenze, valori, capacità installate, reazioni agli aiuti esterni) assumono sempre maggiore importanza, e la parola-concetto di "solidarietà" comincia a fare la sua apparizione non più occasionale, nei documenti ufficiali e negli studi sul tema. Qualche esempio potrà essere utile: la Quinta Conferenza Internazionale sulla Educazione degli Adulti della UNESCO ha affrontato nel 1997 il tema, essendo dedicata a Enhancing International Cooperation and Solidarity (Castro et al. 2015). Poi, nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel corso della ventitreesima sessione del Consiglio dei Diritti Umani (nel 2012), la Specialista Indipendente Virginia B. Dandan ha presentato un documento specifico sul tema: Direitos Humanos e Solidaridade Internacional. Un saggio ispirato alla menzionata Conferenza dell’UNESCO è quello di Janete Lima de Castro, ed altri, del 2015, che è dedicato alla Educazione, l’Etica e la Solidarietà nella Cooperazione Internazionale. Il termine-concetto di "solidarietà" appare anche in alcuni documenti di una certa importanza di Istituzioni Internazionali dello Sviluppo. Come per esempio la F.A.O., che lancia nel 2013 un suo programma: Africa Solidarity Trust Fund; e la World Bank che nel 2015 pubblica una valutazione del suo National Solidarity Program in Afghanistan; mentre l’ UNDP aveva dedicato il suo "Human Development Report" del 2007-2008 al tema Fighting climate change; human solidarity in a divided world. Nell’ambito dell’UNESCO pare che negli ultimi anni si siano "attenuate" le iniziative a favore della "solidarietà internazionale". È interessante leggere in proposito il saggio del 2015 di Mabel Vilakazi Fikile, "The idea of International solidarity at UNESCO is dwindling" . Si tratta naturalmente di progetti, programmi, valutazioni, proposte; il piano dei fatti concreti, delle attività e delle iniziative, è ancora in buona parte abbastanza distante da queste importanti dichiarazioni verbali e programmatiche, che ormai si concentrano quasi stabilmente su termini-concetti come solidarity, equity, people’s participation, partnership, sustainability. E tuttavia, bisogna ammettere che le parole hanno un loro effetto; un qualche cambiamento sostanziale nelle iniziative di sviluppo si sta attuando. Per esempio, l’ammontare degli investimenti per progetti "sociali", formativi, ambientali, è aumentato di circa il 40% rispetto agli anni ’50. E il modello stesso della promozione dello sviluppo ha di molto attenuato la rilevanza che l’aiuto economico, la costruzione di infrastrutture e il trasferimento di tecniche dall’Occidente alle società marginali aveva avuto per lunghi decenni. Infine, crescono sempre di più i progetti e i programmi nei quali hanno partecipato (dalle fasi dell’ideazione a quelle della esecuzione) interlocutori locali, e sempre in numero maggiore; con la rilevante novità che si sta continuamente incrementando il numero di esperti e tecnici locali (del paese beneficiario) che partecipano con ruoli importanti alle iniziative. In molti progetti e programmi gli esperti e tecnici euro-americani, sempre più ridotti di numero, frequentemente limitano la loro attività al management, alla gestione amministrativa e finanziaria delle azioni specifiche.

Comincia, dunque, ad apparire in tutta la sua importanza, in questi documenti, ‘l’altra faccia dello sviluppo’, quella che era stata trascurata o dimenticata. La Cooperazione Internazionale comincia ad essere intesa come un tipo sui generis di "relazione sociale" che coinvolge fino in fondo due fronti sociali: il mondo dei "donatori" e quello dei beneficiari. Assume importanza, in proposito, l’entrata in campo dell’antropologia, che può studiare la diversità delle situazioni e suggerire soluzioni, guardando allo sviluppo come a una relazione complessa nella quale vanno analizzati e studiati entrambi i fronti che vengono in contatto: gli agenti istituzionali dello sviluppo e i diversi beneficiari degli interventi, così come anche i gruppi burocratici e i soggetti intermediari. Sono di quegli anni le prime forme di "consulenza" svolte da antropologi per le grandi istituzioni della Cooperazione (Banca Mondiale, A.I.D. [Agency for International Development], UNDP, FAO). Per l’antropologia gli aspetti meramente tecnici ed economici, gli interessi dei finanziatori delle istituzioni, sono non altro che "parti" di una relazione sistemica, e non le più importanti, sulle quali si può esercitare l’analisi e la valutazione. L’obiettivo di questi primi consulenti è quello di contribuire a delineare una visione "globale", non settoriale, degli interventi, e di studiare la possibilità di identificare e realizzare "forme diverse di sviluppo". Questo è il periodo che vede anche un sorprendente interesse della Banca Mondiale per il tema dei rapporti tra "Cultura e Sviluppo". Basta richiamare il corposo volume della Banca, edito in collaborazione con l’ UNESCO, Culture and Development in Africa (Serageldin, Taboroff, 1994), e l’altro Culture and Sustainable Development (Serageldin, Martin-Brown, 1999), o seguire i lavori della "Commissione per la Cultura e lo Sviluppo" dell’UNESCO, della quale facevano parte alcuni antropologi. Il primo dei due volumi della Banca Mondiale raccoglie gli studi presentati a una Conferenza Internazionale tenuta nel 1992. In molti dei saggi viene messa in evidenza una visione "olistica" della "cultura", nella quale l’economia e la tecnica non sono che parti di un tutto, solo parti anche se rilevanti. Robert Klitgaard si chiede nel suo intervento quale sia la differenza, nel tener conto degli aspetti culturali dei processi di sviluppo, tra il "lasciare" che siano considerati importanti, con i loro effetti sull’insieme della vita delle comunità interessate, e il "come", in che modo e con quali strategie e metodologie, si possa realizzare questo "tenere in conto la cultura", perché non sia una semplice concessione verbale alle tendenze del momento. Nel libro viene dato largo spazio alle opinioni e valutazioni di alcuni intellettuali africani.

Questa attenuazione delle posizioni originarie di Bretton Woods e delle idee sulla supremazia dell’Occidente (tecnica ed economica, organizzativa, intellettuale), produce anche un effetto imprevisto. Cominciano ad apparire concezioni e pratiche dello sviluppo frutto di una "ibridazione" e di un "adattamento" dell’economia dello sviluppo a molte e diverse tradizioni culturali. Un esempio assai notevole di questa attitudine lo troviamo in alcuni lavori di economisti dell’India, formatisi nelle Università americane ed europee. Le forme religiose millenarie dell’India (Buddismo e Induismo) vengono così reinterpretate ed adattate al mondo dello sviluppo e dell’economia. È il caso di alcuni economisti dell’Indira Gandhi National Center of Arts di New Delhi. Sono da segnalare, in particolare, i volumi curati da Baidianath Saraswati (Interface of cultural identity development, 1996, e Integration of endogenous cultural dimension into development, 1997). Il primo volume (l’iniziativa è stata promossa dall’UNESCO) è una raccolta di saggi che riguardano diversi paesi del Sudest asiatico. Gli obiettivi di tutti gli autori sono: promuovere la consapevolezza della dimensione culturale dei processi di sviluppo, affermare ed arricchire le diverse identità culturali, intensificare la partecipazione e la presa di coscienza dell’importanza cruciale del tema, promuovere la cooperazione e lo scambio internazionali attraverso progetti modificati rispetto alle vecchie pratiche. Insomma, per loro uno sviluppo che non tiene conto della dimensione culturale non merita molta attenzione. Molti saggi, tra i quali quelli di Saraswati e di Premasiri, considerano un necessario punto di partenza, prima di parlare di economia e di tecnica, il fatto di tenere nel massimo conto il patrimonio di idee che viene dalle lontane ‘Upanishad’; e il Brahmanismo ne è un corollario necessario. Sono queste le basi teorico-ideologiche indispensabili per la pensabilità dell’economia. Premasiri, nel suo saggio, si dedica al tema della "Umanizzazione dello Sviluppo" attraverso una prospettiva tratta dal Buddismo Theravada. Molti altri interventi insistono sulla opportunità di riconoscere il "pluralismo culturale" come dimensione costante dei processi di sviluppo nel Sudest asiatico. Il secondo volume si sofferma lungamente sulla necessità di rivedere le concezioni e pratiche dello sviluppo e identifica alcune questioni e problemi che riguardano la identità culturale (intesa soprattutto come coscienza collettiva del sé sociale), il pluralismo, la necessità di attribuire la massima importanza alla "conoscenza locale" (indigenous and local knowledge). Sono anche presentati alcuni originali "studi di caso" tratti da progetti e interventi – nella loro rilevante diversità - realizzati nella Cina rurale, in Indonesia, in Giappone, in Corea, in Sri Lanka, e infine in Tailandia, come anche in regioni differenti dell’immenso e variegato continente indiano.

Però, prende forza al tempo stesso in questo periodo, parallelamente alle innovazioni soprattutto terminologiche e concettuali delle quali s’è detto, il filone "critico-radicale" che è stato definito approssimativamente come "anti-sviluppista". Alcuni esempi di questa tendenza sono: la pubblicazione a cura di Daniel Fino, Impasses et promesses. L’ambiguité de la coopération au développement (1996); Roger C. Riddell, ‘Does foreign aid really work?’ (2008); William Easterly, The White Man’s burden. Why the West’s efforts to aid the rest have done so much ill and so little good (2007); Dambisa Moyo, Dead Aid. Why aid is not working and how there is a better way for Africa (2009). Ma è giusto anche riconoscere l’importanza di uno dei più radicali e competenti critici dello sviluppo, Wolfgang Sachs, al quale dobbiamo la cura di un ricchissimo volume come Dizionario dello sviluppo (2002), che contiene saggi dei più importanti ed efficaci critici delle idee e pratiche dell’intervento presso popoli e paesi lontani, e, sempre nello stesso anno, un piccolo prezioso libretto dedicato alla Archeologia dello sviluppo. È opportuno anche citare il brillante e documentato pamphlet del 1990 della scrittrice camerunense Axelle Kabou (soprannominata "la Cassandra Africana") dal titolo assai stimolante: E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo? .

Un attore efficace della nuova cooperazione internazionale di interesse non economico: le Organizzazioni Non Governative

Se mettiamo da parte, nel corso della nostra indagine, le Istituzioni Internazionali dello Sviluppo, che pure hanno dimostrato – come s’è visto – di saper cambiare progressivamente il loro linguaggio e le dinamiche di pianificazione ed esecuzione dei progetti, allontanandosi presto dalla piena convinzione diffusa sui caratteri originari della "cooperazione per interessi di tipo economico-politico", dobbiamo allora rivolgerci a diversi attori sociali che hanno messo in pratica – oltre a proclamarlo nei loro testi teorici – l’orientamento che abbiamo visto a tratti, ma solo a tratti, emergere nella cooperazione ufficiale. Questi soggetti sono le Organizzazioni Non Governative (ONG), presso le quali termini-concetti come "solidarietà", "intervento umanitario", "lotta alla povertà", "partecipazione intensa dei beneficiari", "mutualismo", hanno piena e costante presenza nei documenti e nelle azioni. Tra le caratteristiche precipue dell’azione delle ONG per lo sviluppo possono essere identificate le seguenti: a. Un legame forte non con i governi e le loro politiche, ma con una propria "base sociale" della quale sono espressione (territori e gruppi di appoggio del proprio paese, organizzazioni della società civile), e verso la quale svolgono attività di "formazione" e di informazione (spesso "contro-informazione") sui paesi, problemi e possibili soluzioni dei problemi di paesi lontani; b. Una consistente autonomia economica e finanziaria (attraverso raccolte di fondi propri) e una sempre più limitata dipendenza dai fondi ufficiali delle Organizzazioni Internazionali e dei Governi; c. Una autonomia decisionale rispetto alle posizioni ufficiali, con strategie proprie, basate su lunga esperienza e intenso "dialogo" con le controparti; d. Una intensa collaborazione e compartecipazione locale (co-gestione, fin dal disegno e dalla formulazione programmatica, nei progetti); e. Un coinvolgimento operativo di tecnici "non specializzati" in un solo settore ma con formazione "multisettoriale", o di tecnici di alta professionalità ed esperienza dedicati però a questo lavoro per ragioni etiche.

Un quadro molto ampio e soddisfacente degli impegni delle ONG nelle situazioni di crisi-paese dell’ultimo decennio è contenuto nel corposo volume frutto dei lavori presentati al Forum SOLINT (Solidarietà e Cooperazione Internazionale), pubblicato a Roma a cura di 5 importanti ONG italiane (Tassara 2000). Gli argomenti trattati sono: i progetti riguardanti l’America Centrale, dalle azioni in difesa degli effetti dell’uragano Mitch ai processi di pace; la pacificazione e la ricostruzione nei Balcani; l’instabilità politica nel Corno d’Africa; la pacificazione e la ricostruzione economico-sociale in Angola e in Mozambico; i contributi ai tentativi di ricostruzione dello Stato Palestinese. Come si vede, si tratta in ogni caso di impegni di grandi responsabilità in paesi che attraversavano crisi politiche molto rilevanti, alle quali le ONG, con la loro agilità e relativa indipendenza di azione, hanno potuto dare contributi efficaci.

Una ricerca panoramica sulle associazioni di promozione dello sviluppo che pongono in essere una versione attenuata (dal punto di vista tecnico-economico) rispetto alle tradizioni ufficiali delle Organizzazioni Internazionali e dei Governi, e caratterizzata dalla più o meno intensa "partecipazione" degli attori sociali locali, è stata effettuata dal CIPSI e pubblicata nel 1989 come Primo Rapporto Nazionale, L’associazionismo di solidarietà con i paesi in via di sviluppo. Mentre un’indagine sociologica appropriata e molto efficace sull’attività delle associazioni per lo sviluppo in una regione italiana, è quella di E. Campelli, Solidarietà ed etica laica. Un’indagine sul volontariato in Emilia Romagna, del 1994. Ma molto più impegnativa e densa di riferimenti teorici è la ricerca comparativa di Diana Joyce Fox, An ethnography of four non-governmental development organizations, del 1998. Il volume, come si vede, è dedicato a quattro Organizzazioni Non-Governative internazionali, che vengono studiate descrittivamente e analiticamente come nelle migliori tradizioni dell’etnografia.

La letteratura esistente sulle ONG è estesissima e ricca di elaborazioni teorico-metodologiche che hanno messo in evidenza lo "scambio", la "partecipazione", la "solidarietà", l’azione "umanitaria", la visione globale e non semplicemente economico-tecnica degli interventi per il "miglioramento" delle condizioni di vita delle popolazioni marginali. A partire dagli anni ’80 hanno avuto molto successo libri come quello di Henry Rouille d’Orfeuil, Cooperer autrement. L’engagement des organizations non gouvernamentales aujourd’hui (1984), la cui seconda parte è tutta dedicata alla ‘solidarietà’; quello di Bertrand Schneider, La révolution aux pieds nus. Rapport au Club de Rome (1985); quello a cura di Robert F. Gorman, Private voluntary organizations as agents of development (1984), che contiene elementi di analisi storico-metodologica e studio di casi; quello di Robin Poulton e Michael Harris, Putting people first. Voluntary organizations and Third World development (1988). Altri volumi mettono in grande rilievo le capacità delle ONG di agire con efficacia nel miglioramento delle condizioni (anche produttive) del mondo rurale (Riddell e Robinson, 1995). Ma ci sono anche saggi che sottolineano in maniera critica la irriducibile "differenza" dell’azione delle ONG rispetto ai governi e alle Istituzioni Internazionali, e anche la messa in discussione esplicita, o sottintesa nel tipo di azioni effettuate, come il libro di Michael Edwards e David Hulme, Making a difference. NGOs and development in a changing world (1992), o quello di John Farrington e Anthony Bebbington, Reluctant partners? Non-Governmental Organizations, the State and sustainable agricultural development (1993). Altri scritti enfatizzano piuttosto l’attitudine, di buona parte delle Associazioni Private per la Promozione del Miglioramento delle condizioni di vita, di collaborare apertamente con le autorità locali, nazionali e internazionali, assumendo spesso il ruolo di intermediarie tra il mondo esterno e le comunità locali. È il caso del libro di Thomas F. Carroll Intermediary NGOs. The supporting link in grassroots development (1992), o quello ancora più caratterizzato nel senso appena indicato, di Ian Smillie e Henry Helmich, Organizzazioni Non Governative e governi: un tandem per lo sviluppo (1995). Infine, merita una segnalazione il corposo e ricco volume ONG et développement. Société, économie, politique (Deler et al. 1998), riguardante l’Africa ex-Francese e gremito di studi di caso; tratta a fondo il tema delle "ONG del Sud", nate localmente come controparti di progetti e interventi.

Come s’è visto, quella della piena "partecipazione" attiva dei beneficiari in tutte le fasi del ciclo di progetto, è diventata un’idea portante, una sintesi di un nuovo modello di sviluppo, e a volte ha assunto anche i caratteri di una "parola-chiave", se non di un segnalatore simbolico non privo di retorica. Massimo Tommasoli ha dedicato a questo tema un ottimo libro, Lo sviluppo partecipativo (2001) che ha avuto un grande successo ed è stato tradotto in francese e in spagnolo. Il capitolo IV del volume (‘Sviluppo partecipativo, partecipazione popolare e apparato dello sviluppo’) è una densa trattazione dell’uso, dei significati del termine, e dei tipi di azioni pertinenti svolte nei progetti degli ultimi decenni. Vengono identificate le cause e gli effetti negativi della scarsa implicazione della popolazione beneficiaria negli interventi del passato, e i caratteri dei nuovi progetti, orientati dall’idea di uno sviluppo "endogeno", con analisi delle vere necessità basiche della popolazione, e con impostazione multisettoriale, integrata e flessibile degli interventi, intensità e continuità nella comunicazione sui diversi aspetti, anche tecnici; insomma con un approccio bottom-up, e non top-down, il che è un cambiamento radicale nella cultura istituzionale delle agenzie di cooperazione, come la decentralizzazione amministrativa dello Stato, la appropriazione delle attività di sviluppo (ownership, empowerment, cioè presa piena di decisioni e controllo della gestione dei fondi). Questi caratteri appaiono, oltre che in quasi tutti i resoconti delle attività e interventi delle Organizzazioni Non Governative, in numerosi documenti ufficiali delle Istituzioni Internazionali, in buona parte europee, che hanno adottato la nuova terminologia, anche se la messa in opera concreta e completa di queste innovazioni non può dirsi pienamente realizzata.

Una classificazione sommaria delle ONG può comprendere le associazioni private con forti caratteri di volontarismo, le forme associative dei paesi del Sud formate da leaders e membri di gruppi di "ricezione" dei fondi, le associazioni internazionali che agiscono e raccolgono fondi ed esperti motivati da molti paesi, come OXFAM, Save the Children, Medicins sans Frontières. Per tutti questi gruppi non ufficiali, realizzatori di interventi in zone molto marginali e spesso con soggetti sociali restii ad accettare una presenza straniera, anche se portatrice di aiuti, il concetto di base di "solidarietà" ha un significato preciso. A parte alcuni gruppi legati alla Chiesa, che a tratti fanno apparire accenni alla "generosità", a forme elevate di "carità", di "donazione" senza contropartita, la maggior parte di questi soggetti intende la "solidarietà" come un’intensa relazione sociale, di scambio assolutamente paritario, di complementarietà e di reciprocità diretta. Infatti, molti dei giovani che fanno parte di queste organizzazioni sperimentano le loro capacità professionali in formazione attraverso il lavoro sul campo, apprendono conoscendo e interrogando incessantemente i locali, poi invitano assai spesso i dirigenti delle associazioni locali partner dei progetti a viaggi in Europa o in America, perché essi siano in grado di intendere più approfonditamente e direttamente le caratteristiche del mondo dei "donatori" al quale appartengono le ONG. A volte ci sono anche casi di introduzione dei saperi pratici di africani o asiatici attraverso soggetti invitati in Europa, all’interno di attività di lavoro che si svolgono in iniziative economiche e piccole imprese euro-americane. Tra le ONG internazionali, autonome dal punto di vista finanziario, vorrei citare l’associazione francese "Solidarités International", fondata nel 1980, che è specializzata negli interventi (in paesi africani e asiatici) riguardanti l’acqua (pozzi, potabilizzazione, protezione delle fonti), la "sanitazione" di regioni svantaggiate e lontane dai centri urbani (costruzione di latrine, eliminazione dei rifiuti organici) e la "sicurezza alimentare".

Ma non è tutto rose e fiori nella categoria delle ONG. C’è stato qualche caso di ruberie, determinato anche dalla drastica diminuzione delle raccolte di fondi in Europa, che dovrebbero invece conferire una assoluta autonomia a queste organizzazioni. La situazione è peggiorata da quando i grandi donatori (le Istituzioni Internazionali, gli uffici della Cooperazione dei governi europei) hanno cominciato a pretendere che venissero chiaramente indicati, nei capitoli del bilancio preventivo dei progetti finanziati dai soggetti ufficiali, gli apporti finanziari delle ONG (generalmente attorno al 15% del costo totale, in molti casi del 25%). Naturalmente, non potendo a volte sottostare a queste norme, le organizzazioni sono obbligate a giochi di bilancio; il tutto rende frequentemente i progetti non-valutabili, per l’esistenza di capitoli di spesa non corrispondenti a verità. Infine, in molti paesi dell’America Latina per esempio, la creazione di organizzazioni volontarie per lo sviluppo, recettrici di fondi internazionali o nazionali, mobilita interessi e strategie di alcuni leaders politici che – essendo esclusi dal governo per un cambio di Presidenza – creano, nella forma di ONG, dei propri centri di ricerca e azione sociale che vanno a lavorare nelle periferie dei paesi, riempiendo di fatto un vuoto costituito dalla insufficienza delle strutture amministrative periferiche dello Stato. In tal modo, questi nuovi tipi di organizzazioni tendono a perdere quella autonomia critica di visuale, sostenuta dall’autonomia finanziaria, che costituisce la caratteristica fondamentale delle Organizzazioni Non Governative (che in questo come in alcuni altri casi non dovrebbero più usare il significativo inciso "Non", che sottolinea in maniera energica la loro identità).

Il quadro degli attori dello sviluppo non particolarmente legati alle logiche della cooperazione governativa ufficiale e delle istituzioni internazionali non sarebbe completo senza un breve cenno a nuovi soggetti, che negli ultimi anni hanno intensificato le loro attività, e che presentano qualche somiglianza con le Organizzazioni Non Governative. Si tratta della "cooperazione decentrata", promossa e gestita dalle autonomie locali, strettamente legata al territorio (Comuni, Province, Regioni). Un libro che presenta in dettaglio i vari aspetti delle attività e i metodi di questi nuovi soggetti, è quello curato da Vanna Ianni (2004 a). Nello stesso anno la Ianni pubblicò un testo di base sul tema, al quale si fa oggi riferimento per la competenza e affidabilità: La società civile nella cooperazione internazionale allo sviluppo. Approcci teorici e forme di azione (2004 b). Un altro buon volume sul tema è quello di Mario Grieco e Sergio Lenci, La cooperazione decentrata oltre l’aiuto. Gli attori locali nella ridefinizione dei rapporti Nord/Sud (1999). C’è da aggiungere, dunque, che il processo di revisione, non solo terminologica ma pure nella progettazione ed esecuzione delle iniziative di sviluppo, ha cominciato a coinvolgere, oltre che i gruppi umani svantaggiati dei continenti extraeuropei, anche le iniziative locali dello stesso tipo in Europa, dedicate al miglioramento delle condizioni produttive e dei mercati nelle zone rurali e disagiate del continente. Hanno cominciato ad essere messi in evidenza e in pratica i principi di valorizzazione della specificità dei sistemi economico-sociali e culturali locali, nella loro diversità che impone strategie differenziate. Questa dello "sviluppo a casa nostra", sulla base delle esperienze e delle correzioni alle vecchie tradizioni di intervento della cooperazione internazionale, è una delle più rilevanti innovazioni degli ultimi decenni. Molto importante, in proposito, è il volume curato da Jan Douwe van der Ploeg e Ann Long, Born from within. Practice and perspectives of endogenous rural development (1994). Il libro, al quale hanno partecipato soprattutto sociologi rurali e geografi (tra di essi un buon numero di italiani), mostra una grande sensibilità e capacità di indagine di tipo antropologico. La parte empirica contiene saggi molto accurati e densi di dati su una regione "marginale" del Nord-Ovest del Portogallo (Barroso), su una regione montagnosa e remota della provincia di Granada (Spagna), e infine sulla trasformazione e produzione tradizionale – rinnovata – della carne "Chianina" di alta qualità in Umbria. In base a questa "rivoluzione del settore agricolo", che tende a liberare – con un orientamento multisettoriale, coordinato, complementare e integrato tra contesti vicini - il produttore dalle costrizioni del mercato unico mondiale, si tende a valorizzare le "reti di relazioni", la collaborazione "orizzontale" tra produttori, l’identità culturale e il patrimonio specifico di certe aree europee, apprezzando la diversità in interventi flessibili e adattati alle particolarità, e alle "capacità storicamente installate", di ciascuna sottoregione. Ma ci sono casi, che qualcuno definirebbe "estremi", di collaborazione sociale, solidarietà stretta, mutualismo, nel nostro paese. Ricordo di aver visitato, molti anni fa, una "neo-comunità" di una settantina di famiglie, creatasi nella Val di Chiana. Era composta da figli di contadini tradizionali della zona e da neo-contadini migrati dalla città. Tutti lavoravano, con turni brevi, a una green economy, a un’agricoltura multipla, coadiuvata da vari allevamenti di pollame ruspante. La produzione agricola soddisfaceva pienamente le necessità alimentari, senza bisogno di accedere al mercato esterno (c’era anche una coltivazione di grano selezionato e di mais). La vita sociale era caratterizzata da continui "scambi di lavoro" (per certi interventi nella riparazione delle case, nell’assistenza dei bambini). Ogni uomo o donna si era "specializzato" in lavori specifici appresi prima per hobby poi per dare un contributo alla collettività (c’era chi sapeva di elettricità, chi sapeva fare l’idraulico o il falegname, chi il muratore e il pittore, e così via). C’era anche un anziano medico omeopatico e un paio di erboristi con i loro campi seminati ad erbe particolari. C’era perfino una scuola, accettata dopo lunghe controversie dal Provveditorato agli Studi, e affidata a una maestra pensionata, che metteva in pratica la straordinaria esperienza educativa di Don Lorenzo Milani, Priore di Barbiana. Solo una parte limitata dei campi produceva prodotti per un mercato esterno selezionato, e i guadagni venivano accumulati in una "cassa comunale", per usarli in caso di necessità. Si tratta certamente di un "caso limite", ma dimostra senza difficoltà come sia possibile, anche nella post-modernità, di applicare intensamente – e con effetti sociali indubbiamente positivi - le norme della "collaborazione", della "solidarietà", del "mutualismo".

Osservazioni conclusive

Come s’è visto, il panorama storico dell "aiuto allo sviluppo" si divide nettamente in due filoni, il primo dei quali (quello della Cooperazione per fini di interesse economico) si è di molto attenuato negli ultimi decenni. Il secondo, quello della "Cooperazione solidaristica" si sta sempre più diffondendo in un contesto mondiale di crisi e di polarizzazione delle condizioni economico-sociali dei diversi gruppi umani. Sia nei rapporti con i paesi e le regioni del cosiddetto Terzo Mondo, sia all’interno degli stati moderni, che conoscono regioni e strati sociali disagiati, la collaborazione sociale e il mutualismo – nei loro diversi aspetti - si stanno lentamente rafforzando e stanno contribuendo a disegnare una nuova forma di "relazionismo sociale" di base, di partecipazione popolare, che si ricollega ai lontani esempi di riflessioni e di pratiche dell’associazionismo diffuso con i quali è iniziato il cammino sulla ridiscussione critica delle basi della convivenza sociale. Ma va anche rivendicato, in conclusione, il possibile ruolo dell’antropologia nella promozione e gestione di queste iniziative caratterizzate dalla "Collaborazione sociale" e dal ‘Mutualismo’; di un’antropologia "applicata" di nuovo tipo, di un’antropologia "pubblica", attenta sia agli interessi particolari di gruppi locali, sia agli interessi generali e alla correzione delle politiche, che senza perdere nulla della intensità e densità della sua ricerca, mantenendo il suo spirito critico nei confronti delle istituzioni e degli attori ufficiali della vita politica e amministrativa, riesca ad incastrare il suo particolare sapere nell’ambito diretto di un fare, ad orientare con una conoscenza approfondita delle diverse forme di associazionismo e di solidarietà, la gestione ed esecuzione di nuove forme di socialità diffusa del presente e anche del prossimo futuro.

Nel suo complesso, quindi, la parola-idea-concetto di "solidarietà" è apparsa oscillare, nella lunga storia delle culture dell’Occidente, tra quattro poli: a. La "solidarietà" come semplice caratteristica strutturale della socialità umana, senza valutazioni e/o apprezzamenti particolari; b. La "solidarietà" come obbligo giuridico, imposto dalla cittadinanza e dalla appartenenza a una organizzazione complessiva della socialità (lo Stato); c. La ‘solidarietà come "dovere morale", di disponibilità verso gli altri in situazioni di difficoltà; d. Infine la "solidarietà" come comportamento sociale dotato di una scambievole "utilità" per chi lo pratica, apportatore di "vantaggi" e di reciproche "economie di relazione sociale".

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[1] Comunicazione presentata al V Congresso della S.I.A.A. (Società Italiana di Antropologia Applicata) di Catania (15-17 Dicembre 2017).

[2] Sul gran tema dell’“altruismo”, che ha una ricchissima letteratura, mi limito a richiamare il bel libro di David Sloan Wilson, L’altruismo. La cultura, la genetica e il benessere degli altri. (2015).