Recensione

Ferdinando Fava, In campo aperto. L’antropologo nei legami del mondo, Milano, Meltemi, 2017, pp. 160

Ivan Severi

Università di Milano

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Bibliografia

Ritengo importante che una considerazione, collocata verso la fine della prefazione di Alberto Sobrero al libro di Ferdinando Fava recentemente dato alle stampe per i tipi di Meltemi, rimanga bene in mente al lettore che si volesse avventurare tra le sue pagine:

«sarebbe necessario leggere la ricerca sullo Zen di Palermo per comprendere la specificità di questo approccio (non chiamiamolo metodo) e le sue conseguenze. Una fra tutte: una critica al ruolo politico dell’antropologo come intellettuale esperto dei modi di vivere e pensare altrui» (Sobrero 2017: 15).

Sono parole che sanno sintetizzare molto bene il senso che pervade il volume e, se non altro, sono sufficienti a spiegare la scelta di recensire In campo aperto su una rivista che si chiama «Antropologia Pubblica». Non si può certo dire che il libro sia di facile lettura, addentrarsi nell’analisi storica ed epistemologica condotta dall’autore comporta anzi un certo sforzo, sforzo ricompensato dalla sensazione, al termine del viaggio, di avere compiuto il sentiero più accidentato ma anche quello più soddisfacente, il percorso di chi non si accontenta di soluzioni facili e standardizzate.

Fava formalizza in una riflessione articolata quello che da anni agisce in background al suo modo di intendere la ricerca, e lo fa con In campo aperto. Il volume, agile seppur estremamente denso, si articola in tre parti, con l’aggiunta di un epilogo che si colloca di lato rispetto alle riflessioni sviluppate e che cerca di trascenderle, spostandole su un altro piano. Il primo capitolo riguarda il ruolo dell’antropologo sul campo e segue la figura di Gérard Althabe nel suo costituire i termini del problema durante le sue ricerche, prima tra i pigmei camerunensi Baka e tra i giovani di Brazzaville, poi nei villaggi del Madagascar, fino ad arrivare alle banlieue di Nantes. Allo stesso tempo Althabe si confronta anche con una comunità di pari che si interroga sul ruolo da interpretare durante il fieldwork per condurre al meglio la ricerca. Nel secondo capitolo la sua idea di “implicazione” viene messa alla prova della contestuale “analisi istituzionale” francese, dell’“intervento socioanalitico” di Lourau e della lettura critica compiuta da Sartre alla “psicosociologia dei gruppi” di Lewin, tutte posizioni da cui ha modo di differenziarsi sotto diversi aspetti. Nell’ultimo capitolo è lo stesso Fava a confrontarsi con Althabe, mostrandone la ricaduta pratica attraverso la lunga ricerca di campo condotta a Palermo nel quartiere dello Zen (Fava 2011a) e sottolineandone l’originalità rispetto alle riflessioni di Clifford Geertz prima e degli antropologi americani che si sono occupati della relazione tra ricercatore e soggetti di ricerca poi. L’epilogo mostra come Fava abbia scelto di spostare sul piano etico le argomentazioni sviluppate nel testo, il mio scopo qui è invece quello di tradurle in termini pratici, in modo da fornire spunti di riflessione utilizzabili in ambito applicato e professionale.

Nelle prossime pagine non mi dedicherò all’analisi puntuale del testo, quanto piuttosto a una riflessione critica che da esso si muova, ma sia finalizzata a dimostrane le potenziali ricadute operative. Nel tentare di definire l’originalità, unita alle ripercussioni pratiche, dell’implicazione di Gérard Althabe, Fava lavora ai margini, su scarti di tempo e di significati. Cesella i contorni, incastonando un pensiero in un panorama vasto, e lo fa con la perizia dell’artigiano che non lo vuole confondere tra decine di particolari, anzi vuole farlo risplendere, con la grazia del musicista intenzionato a comporre un arrangiamento che faccia risaltare il solista.

Tutto comincia da un atto di apertura che mina la scontatezza del ruolo dell’antropologo, rimettendolo al modo in cui è percepito dal suo soggetto di ricerca: le persone. Questo scarto iniziale cambia tutto, seppur tutto sembri rimanere com’era. La prima parte del saggio riassume, aggiungendo nuovi elementi, un dibattito che lo stesso Fava aveva già animato in precedenza (Fava 2011b e 2013), quello sul ruolo del ricercatore sul campo. Viene quindi contestualizzata l’intuizione di Althabe, che sceglie di scartare di lato rispetto all’abituale interrogativo su ciò che questi debba volontariamente cercare di fare (Gold 1958; Adler e Adler 1987), accettando la prevalente incontrollabilità del fenomeno: «l’etnologo, installandosi in una situazione locale, è proiettato su una scena dove si gioca una sceneggiatura di cui non conosce l’argomento ma in cui un ruolo gli è assegnato» (Althabe 2001, citato nel testo). La domanda che tormenta sia l’allievo (Fava) che il maestro (Althabe) diventa così il bandolo della matassa che seguiamo anche attraverso la seconda sezione del testo, forse quella più respingente: “Chi sono per i miei interlocutori?”. Nel confronto con l’analisi istituzionale francese Fava riprende la questione posturale e la trascina progressivamente sul piano etico, tema che verrà affrontato in modo esaustivo nell’epilogo, complice l’inedito inserimento della riflessione di MacIntyre (2007) in ambito antropologico. Ma è forse la terza parte quella che si fa più apprezzare da un pubblico di antropologi, vuoi per il riemergere prepotente del fieldwork nella sua concretezza (fatta anche di casi studio ed estratti dal diario di campo), vuoi perché i termini di confronto toccano le corde più sensibili dello statuto disciplinare, e non impongono lo sforzo di superare un certo senso di inadeguatezza, che suscitano invece i capitoli precedenti nel loro trascinare il lettore al di fuori della comfort zone. Qui il confronto con l’antropologia interpretativa di stampo americano è serrato e ruota tutt’attorno al misunderstanding sulla definizione del ricercatore, la quale per lungo tempo è sfociata in una forma di protagonismo dello studioso in quanto autoritas scrivente (Geertz 1998).

Non è scontato che il dipanarsi della matassa teorica debba suscitare l’interesse del lettore di «AP» di per sé, ma dovrà farlo una volta seguito il filo fino alla dimensione applicata della disciplina. L’appello, che emerge forte e chiaro dal testo di Fava, si rivolge al principio di realtà della ricerca antropologica, affinché questa superi l’idea di poter essere esaustiva nel suo movimento verso la comprensione, perché «non è tanto o solo un sapere esperto sulle differenze ma il modo di procedere per comprenderle» (pp. 24-25), un’idea agli antipodi, quindi, rispetto a quella di una disciplina interamente votata a garantire la sopravvivenza di forme di umanità (Remotti 2014). Una disciplina, anzi, che presuppone l’inaccessibilità della realtà preesistente all’arrivo del ricercatore sul campo, ma che si vuole occupare di un fenomeno del tutto nuovo, la cui possibilità scaturisce proprio grazie alla sua presenza: Fava (e prima Althabe) le chiama “relazioni emergenti”.

L’autore sostiene che la presa di coscienza di questo passaggio costituisca la rivoluzione del pensiero di Althabe e allo stesso tempo l’intuizione che apre la via di fuga dall’eccessivo protagonismo dell’antropologo. È su questo sottile e precario equilibrio che si gioca l’utilità della pratica antropologica, nei possibili scenari che si possono aprire anche sul terreno dell’antropologia professionale.

In questo senso il terzo capitolo del volume di Fava inanella una concatenazione concettuale che porta a considerazioni inequivocabili. Il primo passaggio si concentra sullo status dell’antropologo, prendendo le distanze dalla raffigurazione che lo identifica come colui che scrive (Geertz 1998). Si potrebbe portare allo stremo questo ragionamento, la pratica della scrittura infatti, necessaria alla costruzione di una credibilità accademica, può risultare d’ostacolo in altri ambiti. Non è possibile prescindere dal fatto che l’“etnografia” (intesa come pratica di ricerca) sia logicamente e cronologicamente concepita come primo step di un percorso che dovrà portare all’“etnografia” intesa come produzione testuale. L’approccio antropologico può essere invece concepito in modo più ampio, in modo da tener conto della sua dimensione esperienziale (Piasere 2002) e dell’attitudine del ricercatore nel suo avvicinarsi al campo: «l’identificazione dell’implicazione come uno dei cardini del legame di campo, risulta essere congruente allora con una teoria sociale che pone nella progettualità individuale il luogo di mediazione tra l’iniziativa del soggetto e le costrizioni delle strutture, culturali o sociali che siano nelle diverse scale in cui la realtà si compone e che, in questo modo, vengono allo scoperto» (p. 133-134). La dimensione intenzionale non restituisce un’immagine esaustiva del fieldwork, e diversi colleghi si interrogano da tempo sul trattamento da riservare all’inatteso (cfr. ad esempio, Favret-Saada 1985 e La Cecla 1997). L’interrogativo posturale da cui si muove Althabe ripropone in modo positivo questa condizione, come spazio di apertura e azione per l’antropologo.

L’effetto di questo sguardo obliquo è una riconfigurazione concettuale del concetto stesso di fieldwork: «il campo così non sarebbe né un luogo geografico né un testo, ma prima di tutto un’unità piscologica e relazionale» (p. 135). Garante di questa unità, che Fava definisce anche “pan-relazionale” (p. 135), sarà allora l’antropologo stesso che, con la sua attitudine operativa, attraverso i legami emergenti che saprà stabilire, stabilisce i confini stessi del fieldwork. Non è quindi un apparato teorico, ma una constatazione assolutamente calata nella realtà terrena a porsi tra l’esperibile dell’etnografo sul campo e il tutto: la portata della sua indagine dovrà necessariamente fermarsi e non potrà prescindere dalla sua capacità relazionale e dalla portata delle relazioni che sarà in grado di stabilire.

Se ricollocata su un piano più terreno, la riflessione di Althabe prima e di Fava poi, restituiscono una legittimità all’antropologia nel suo svolgersi e indipendentemente dal precipitato costituito dalle sue forme di restituzione ortodosse. L’attività professionale dell’antropologo è pensabile in molti contesti proprio attraverso questa attitudine, unita alla capacità personale e a una preparazione specifica. Il legame emergente non è solamente quello con cui l’antropologo si interfaccia sul terreno, tra i soggetti di studio, ma anche quello che saprà articolare con altri professionisti all’interno di una equipe multidisciplinare o quello che imbastirà con i decisori politici in sede di definizione di policy.

La chiusa di Fava si sposta su una dimensione etico-epistemologica decisamente più nobile di quanto io intenda fare, riconnettendo la pratica della ricerca antropologica alla nozione di “bene interno” (MacIntyre 2007). Con questo piccolo contributo non voglio spingermi così oltre, mi accontenterei di riuscire a mostrare come la dimensione applicata della ricerca, lungi dall’essere distante e incapace di utilizzare in modo proficuo le elaborazioni teoriche nella loro forma migliore, cerchi invece di fare tesoro degli insegnamenti che arrivano dall’accademia. In tal senso è con gratitudine che gli antropologi applicati accolgono analisi teoriche, per certi versi ostiche, come quella compiuta da Ferdinando Fava, quando sanno gettare nuova luce sulle pratiche con cui si confrontano quotidianamente e che spesso devono legittimare a cospetto della rigidità di certe posture intellettuali.

Bibliografia

Adler, P. A., Adler, P. 1987. Membership roles in field research. Newbury Park (CA). Sage.

Althabe, G. 2001. Pour une ethnologie du présent. Ethnologies, 23 (2): 11-23.

Fava, F. 2011a. Lo ZEN di Palermo. Antropologia dell’esclusione. Milano. Franco Angeli.

Fava, F. 2011b. Le interazioni sul campo e l’implicazione in Gérard Althabe. Oltre lo stallo dell’etnografia urbana. Sociologia urbana e rurale, 95: 63-87.

Fava, F. 2013. ‘Chi sono io per i miei interlocutori’. L’antropologo, il campo e i legami emergenti. Archivio antropologico mediterraneo, 15 (2): 41-57.

Favret-Saada, J. 1985 [1977]. Les mots, la mort, les sorts. Paris. Gallimard.

Geertz, C. 1998 [1973]. Interpretazione di culture. Bologna. Il Mulino.

Gold, R. L. 1958. Roles in sociological field observations. Social forces,76 (3): 217-223.

La Cecla, F. 1997. Il malinteso. Antropologia dell’incontro. Roma-Bari. Laterza.

MacIntyre, A. 2007 [1981]. Dopo la virtù. Saggio di teoria morale. Roma. Armando Editore.

Piasere, L. 2002. L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia. Roma-Bari. Laterza.

Remotti, F. 2014. Per un’antropologia inattuale. Milano. Elèuthera

Sobrero, A. 2017. «Prefazione», in In campo aperto. L’antropologo nei legami del mondo, Fava F. Milano. Meltemi: 11-16.