Conversazione con Massimo Tommasoli

Bruno Riccio

Università degli studi di Bologna

Federica Tarabusi

Università degli studi di Bologna

Continua il confronto con i colleghi sulle diverse esperienze di applicazione del sapere antropologico. Partendo dal presupposto che non esista un modello di antropologia preconfezionato e astratto, ci interessa esplorare le molteplici modalità con cui il sapere antropologico viene applicato e tradotto in diversificati contesti e ambiti di intervento, dialogando con professionisti che hanno una formazione antropologica e lavorano nello spazio pubblico. In questa sede focalizzeremo l’attenzione sulla democrazia e la cooperazione internazionale.

Massimo Tommasoli vanta, da questo punto di vista, un’esperienza esemplare in quanto capace di coniugare un elevato rigore teorico e analitico con un’importante attività professionale in diverse organizzazioni internazionali. Ci sembra pertanto interessante comprendere con quali forme e modalità sia possibile mettere a frutto la sensibilità contestualizzante, problematizzante e critica dell’antropologia sociale con l’obiettivo di renderla intelligibile e digeribile a interlocutori che condividono altre culture professionali e organizzative in specifici contesti lavorativi[1].

Bruno Riccio, Federica Tarabusi: A questo proposito, ti chiederemmo di riflettere su alcuni ambiti tematici riferendoti alla tua esperienza professionale.

Il primo ambito riguarda i rapporti con altre professionalità.Quando intervieni, che strategie adotti per rendere efficace e intelligibile la tua comunicazione e mettere a frutto la tua formazione antropologica nel dialogo con diversi interlocutori, approcci e saperi professionali? E, al tempo stesso, quali misure e accorgimenti metti in campo per tradurre il linguaggio antropologico nel linguaggio tecnico e burocratico spesso condiviso dalle organizzazioni governative internazionali?

Massimo Tommasoli: Non è facile definire una strategia valida per ogni ambiente lavorativo. Sebbene abbia sempre operato nell’ambito della cooperazione internazionale, ho lavorato in istituzioni – un’organizzazione non governativa, un centro studi, un’amministrazione pubblica italiana, organismi intergovernativi – con caratteristiche molto diverse tra di loro, dalle dimensioni al mandato, dal budget ai sistemi di comunicazione interna ed esterna, dalle procedure di programmazione ai meccanismi di monitoraggio e valutazione, dai processi decisionali e di governo ai sistemi di verifica e controllo.

Una prima lezione che ho appreso dalle mie esperienze è stata l’importanza di comprendere il contesto istituzionale nel quale mi trovavo per elaborare strategie di comunicazione efficaci. In ogni contesto mi sono reso conto che una comunicazione efficace dipendeva da fattori quali: le regole e norme operative formali e informali in uso nella burocrazia; la cultura organizzativa; il grado di centralizzazione o decentramento dei processi decisionali; l’impiego di linguaggi tecnico-specialistici; l’organizzazione dellavoro in gruppi multidisciplinari, unità settoriali e divisioni geografiche; i vincoli di mandato; la “territorialità” nella gestione di un dossier; lo scarto tra le retoriche e le pratiche dell’azione amministrativa, ad esempio in materia di valutazione delle iniziative di cooperazione; la capacità di cogliere le opportunità, vale a dire i momenti critici di un percorso decisionale nei quali è possibile esercitare maggiore influenza.

Una seconda lezione è consistita nella necessità di chiarire, innanzitutto a me stesso per poterlo fare poi con i miei colleghi, quale fosse in ogni contesto lavorativo il mio ambito di controllo diretto rispetto a quello che definirei una sfera di influenza indiretta. Questo passaggio è stato essenziale per delimitare un’area di responsabilità personale, fondata su competenze esplicitamente riconoscibili e riconducibili a un sapere socio-antropologico, e per determinare aspettative realistiche in merito al contributo che potevo offrire ai colleghi per l’analisi, l’attuazione e la valutazione di questioni di loro competenza.

Per quanto riguarda la traduzione del linguaggio antropologico in termini intelligibili per il linguaggio tecnico in uso nelle istituzioni nelle quali ho lavorato, gli aspetti sui quali mi sono concentrato sono stati numerosi.

BR, FT: La seconda questione riguarda invece la traducibilità dei linguaggi professionali e la spendibilità dell’approccio antropologico nelle organizzazioni internazionali. In particolare, come è possibile coniugare il nostro approccio critico, decostruttivo e contestuale con le logiche procedurali che spesso caratterizzano tali contesti istituzionali?

MT: Per un antropologo inserito all’interno di un organismo internazionale, un dilemma costante è come conciliare la logica di pianificazione e di controllo seguita dalle istituzioni con l’approccio critico del suo sapere. Non credo però che questo dilemma sia qualitativamente diverso da quelli affrontati da altri professionisti – giuristi, medici, architetti, ingegneri – nel momento in cui si misurano con i vincoli posti dalle logiche procedurali delle istituzioni nelle quali lavorano. Tutte le istituzioni sono fondate su procedure e regole che definiscono l’architettura del loro agire e nello stesso tempo pongono al centro della propria azione il dispiegamento di varie forme di sapere esperto. I criteri che gli “esperti”, a prescindere dalle rispettive discipline, utilizzano per svolgere il proprio lavoro all’interno di un’istituzione presuppongono sempre un certo grado di compromesso tra i fondamenti del proprio sapere e le logiche procedurali attraverso le quali influenzare l’azione istituzionale. Se non si seguissero quelle logiche, il rischio di irrilevanza del sapere di cui gli esperti sono depositari sarebbe assai elevato. È necessario conoscerle, non per seguirle acriticamente, ma per utilizzarle come punti di ingresso per un’azione di riforma e di cambiamento istituzionale. Gli antropologi inseriti nelle istituzioni non possono da soli conseguire questo risultato. È però possibile individuare alleati per una riforma delle istituzioni che le renda più efficaci rispetto ai propri obiettivi grazie all’uso di saperi esperti – compreso quello antropologico – in un quadro di riflessività e consapevolezza.

L’approccio critico dell’antropologia, se era un tempo un elemento estraneo alle culture istituzionali delle organizzazioni internazionali, è certamente divenuto un elemento più familiare alle retoriche di tali istituzioni. Da un lato, ciò è dovuto alle riforme che hanno distinto il sistema della cooperazione internazionale e che hanno incrementato la presenza di funzionari ed esperti con una specializzazione antropologica negli organici degli organismi internazionali, per rispondere a una concezione più olistica degli interventi e delle politiche di cooperazione allo sviluppo. Dall’altro lato, questo fenomeno è conseguenza della pressione esercitata da altri soggetti che operano nel mondo delle relazioni internazionali senza essere inseriti all’interno di istituzioni governative o intergovernative, come centri di ricerca indipendente, organizzazioni della società civile o think tank. Molti organismi internazionali si sono ormai confrontati con il sapere antropologico, talvolta a partire da studi e ricerche commissionate per la valutazione di programmi e di politiche di cooperazione, altre volte attraverso l’apertura di spazi di dialogo con soggetti ed enti non governativi che negli ultimi venticinque anni hanno consolidato processi consultivi paralleli a quelli negoziali attuati dalle organizzazioni internazionali.

La qualità dell’analisi antropologica impiegata è fondamentale per garantire il riconoscimento e la legittimità della critica che essa veicola. Non basta affermare che un’iniziativa o un intervento di cooperazione non sono efficaci o sono addirittura controproducenti. È necessario comprendere le ragioni di tale inefficacia e delineare possibili opzioni alternative, azioni correttive o iniziative integrative che possano costituire ipotesi di intervento da verificare sul terreno. Una simile impostazione presuppone chiaramente una logica istituzionale aperta e flessibile. La mera applicazione di logiche rigide e inflessibili, infatti, comporterebbe la negazione di qualsiasi istanza critica nell’ambito di un processo decisionale. È ugualmente evidente che l’expertise prevalente in istituzioni aperte di questo tipo deve possedere un carattere critico, che metta in discussione i presupposti delle politiche di cooperazione e dei programmi che da esse derivano, invece di preoccuparsi esclusivamente di confermarne i contenuti, replicando da contesto a contesto i medesimi interventi. Ma questo non si limita certo all’expertise antropologica; riguarda la qualità, il peso e la natura di ogni expertise presente nell’istituzione.

BR, FT: Più di 15 anni fa nel volume Lo sviluppo partecipativo. Analisi sociale e logiche di pianificazione (Carrocci 2001) ponevi l’accento sulla diversa natura epistemologica e pratica del lavoro dell’antropologo rispetto a quello dei decision-makers. Ci piacerebbe tornare su queste riflessioni e chiederti se rafforzeresti questa argomentazione alla luce dell’intensa attività professionale che, da allora ad oggi, hai maturato rivestendo ruoli e promuovendo azioni che hanno influenzato la formulazione delle politiche pubbliche.

MT: “Lo sviluppo partecipativo” si basava su un’esperienza di lavoro all’interno della cooperazione italiana e sull’esposizione, a partire da quell’osservatorio, alle dinamiche di cui sono stato testimone all’interno di un’istituzione governativa di un paese donatore. Quando lo pubblicai avevo da poco iniziato a lavorare all’OCSE dove non mi occupavo più, come al MAE, della formulazione, attuazione e valutazione di iniziative di cooperazione allo sviluppo, ma della definizione di orientamenti e politiche di cooperazione. Si è trattato di un cambiamento significativo che mi ha consentito di passare dall’analisi dei processi decisionali tipici di un ente finanziatore a quelli di un’organizzazione internazionale che ha come specifico mandato il miglioramento della qualità delle politiche pubbliche dei propri paesi membri. Mentre in precedenza avevo partecipato alle riunioni di coordinamento dei gruppi di esperti dei paesi OCSE in materia di valutazione, quando entrai nel segretariato del Comitato per l’aiuto allo sviluppo (DAC) dell’OCSE ebbi il compito di sostenere gli sforzi di coordinamento delle politiche dei donatori, soprattutto in materia di governance e prevenzione dei conflitti. Si trattava sempre di decision-makers, ma il tipo di decisioni che essi adottavano era diverso. Le decisioni sulle quali avevo cercato di esercitare influenza quando ero al Ministero degli affari esteri riguardavano programmi e iniziative di sviluppo, mentre quelle di cui mi occupavo all’OCSE avevano a che fare con le retoriche e gli orientamenti della cooperazione internazionale che erano, nel contempo, espressione di quanto i singoli donatori realizzavano e premessa e impulso per nuovi approcci e iniziative.

All’OCSE mi sono trovato a gestire non più programmi realizzati in paesi in via di sviluppo da un paese donatore, nel mio caso l’Italia, ma iniziative di ricerca orientate alla definizione di politiche di cooperazione, spesso sulla base di studi di caso che analizzavano l’influenza dell’insieme dei donatori bilaterali e multilaterali in paesi terzi. La prospettiva era completamente differente. L’oggetto dell’analisi erano i principï di cooperazione dei donatori, le strategie di aiuto allo sviluppo da essi attuate e i significati da loro attribuiti all’insieme della loro azione. Le decisioni che erano oggetto di negoziato nell’ambito dell’OCSE non riguardavano dunque l’allocazione di risorse, ma i significati da attribuire all’impiego delle risorse allocate da ciascuno di essi. Questi significati, che potremmo definire come cornice “a monte” dell’azione di cooperazione, hanno un notevole potere di indirizzo, in quanto l’OCSE svolge anche una funzione di valutazione “a valle” attraverso il meccanismo della peer review, vale a dire la revisione dei pari svolta a rotazione nell’ambito del DAC per ogni paese membro.

Ho sistematizzato questa esperienza in un saggio intitolato Politiche di cooperazione internazionale. Analisi e valutazione (Carocci 2013), nel quale ho analizzato tali politiche come “razionalità itineranti”. Ho cercato di mettere in evidenza il fatto che le policies, alla cui definizione, formalizzazione e valutazione l’OCSE si propone di offrire uno spazio popolato da expertise specialistiche, siano vere e proprie costruzioni sociali che si proiettano su realtà regionali, nazionali e locali molto diverse tra di loro con un’attitudine universalizzante che influisce non solo sulle modalità di cooperazione internazionale ma anche, soprattutto nei paesi che dipendono dall’aiuto allo sviluppo, sulla definizione di politiche di sviluppo nazionali. Mentre nel periodo in cui scrissi “Lo sviluppo partecipativo” mi concentrai sul ciclo di progetto come elemento portante dell’analisi della logica di pianificazione della cooperazione internazionale, durante il mio lavoro all’OCSE mi sono interessato alla “politica delle policies”, ovvero all’uso di un sapere esperto per la formulazione di meta-politiche di cooperazione che fornivano la cornice per la definizione di policies settoriali e tematiche.

La capacità di un antropologo di influenzare processi decisionali di natura così diversa, nel passaggio da un’amministrazione pubblica di un paese donatore a un’organizzazione internazionale, cambia sostanzialmente. Nel primo caso, l’incastonamento in processi decisionali su programmi e iniziative è tale da consentire di correlare in maniera più diretta le opzioni proposte all’attuazione di un intervento. Nel secondo caso, sebbene ci sia meno prossimità rispetto all’attuazione di programmi, le decisioni che si possono influenzare hanno una rilevanza strategica maggiore, in quanto l’adozione di nuovi orientamenti di politiche di cooperazione può avere un impatto notevole sull’attuazione di numerosi programmi e iniziative da parte di un insieme di attori di cooperazione internazionale: governi, organismi intergovernativi, organizzazioni non governative, istituzioni di ricerca. Eppure, le dinamiche che ho analizzato nei due testi, a distanza di anni, mi sono apparse molto simili, sebbene siano il prodotto di fenomeni di natura e scala differenti. Nel saggio del 2001 ho criticato l’idealizzazione del ciclo del progetto, come modello astratto e razionale di un processo decisionale nel quale si ritiene che le scelte dei decisori siano razionali e fondate su informazioni esaurienti, basate sulle analisi svolte da un corpo di esperti tecnici, mentre in realtà numerosi fattori estranei alla mera dimensione tecnica, quali quelli attinenti gli aspetti politici, amministrativi e istituzionali, influiscono sui processi decisionali. Nel saggio del 2013 ho messo in luce l’idealizzazione del ciclo delle policies di cooperazione, la cui natura politica, che dovrebbe essere auto-evidente, viene anch’essa (come nel caso del ciclo di progetto) razionalizzata e oggettivizzata come risultato di un esercizio tecnocratico fondato sul confronto e la convergenza di analisi formulate grazie all’impiego di saperi esperti.

In conclusione, mentre confermo le ipotesi elaborate nel 2001, sottolineo che, passando dall’analisi di singoli progetti a quella di politiche di sviluppo, il sapere antropologico si confronta con questioni e livelli di analisi che richiedono un aggiornamento continuo dei metodi e delle tecniche di ricerca applicata.

BR, FT: Quali sono le motivazioni che giustificano in termini di visibilità sociale l’entrata nelle organizzazioni internazionali dell’antropologo?

MT: Non sono molti i funzionari che entrano nelle organizzazioni internazionali con il titolo di “antropologo”. La visibilità della professione antropologica dipende dalla capacità di coniugare competenze antropologiche con altre abilità, connesse alla conoscenza di un’area geografica, di una lingua, di un settore di intervento o di un tema prioritario di azione. È ancora attuale la tendenza ad avvalersi di competenze antropologiche nelle varie fasi del ciclo del progetto, con una prevalenza forse dell’impiego di analisi socio-antropologica nell’ambito delle attività di valutazione di iniziative concluse rispetto a quelle di formulazione o attuazione di nuovi programmi. Un campo nel quale dovrebbe crescere la domanda di analisi antropologica riguarda le policies di cooperazione internazionale, con la conseguente richiesta di analisi delle macro-politiche di sviluppo. Data l’attitudine tradizionale dell’antropologia a focalizzarsi piuttosto su differenti livelli analitici, spesso incentrati su unità quali un singolo progetto o un’area circoscritta di intervento, il futuro del coinvolgimento degli antropologi nelle organizzazioni internazionali dipenderà dalla capacità di sviluppare e approfondire competenze pertinenti a condurre tali macro-analisi, senza abbandonare ma anzi valorizzando ulteriormente le micro-analisi che continueranno a costituire un campo caratteristico per l’impiego di antropologi.

BR, FT: Ripensando alla tua esperienza, caratterizzata dall’intreccio di attività di ricerca in diversi contesti (Africa orientale, America Latina e Russia) e attività professionali in importanti agenzie internazionali, quale tipo di riflessione ti sentiresti di condividere sul rapporto fra ricerca “pura” e applicata? Quando secondo te può dirsi legittima e sufficientemente dignitosa una ricerca applicata?

MT: Vorrei rispondere a questa domanda partendo dai miei interessi di ricerca attuali. In questo momento mi sto concentrando sull’antropologia della democrazia, come ambito naturale di analisi correlato al mio impegno in un organismo che si occupa di democrazia e assistenza elettorale. Mi sto inoltre occupando della rilevanza del tema della democrazia nell’azione e nelle politiche delle Nazioni Unite. Nel trattare questi due argomenti, mi confronto quotidianamente con due tipi di dati, analisi e riflessioni. Il primo tipo comprende studi teorici e accademici di ricercatori che utilizzano strumenti di varie discipline, principalmente le scienze politiche, il diritto internazionale e le relazioni internazionali, per verificare ipotesi definite a un alto livello di astrazione, ad esempio in merito alla cogenza della ratifica di trattati internazionali sull’azione di politica estera oppure alla coerenza tra il peso attribuito al tema della democrazia nei discorsi ufficiali in occasione del dibattito annuale dell’Assemblea generale dell’ONU (UNGA) riguardanti la questione della democrazia e il voto su risoluzioni sullo stesso tema adottate dall’UNGA. In queste analisi predomina l’impiego di tecniche statistiche e di metodologie quantitative. Non solo la loro rilevanza pratica è molto limitata; esse hanno un’importanza marginale anche sul piano teorico, nonostante siano qualificabili come studi di stile accademico. Sul piano dell’analisi antropologica, tuttavia, e specificamente sul versante di quella che potremmo chiamare ricerca fondamentale, negli ultimi anni sono stati pubblicati studi molto interessanti che riportano i risultati di etnografie istituzionali di singole agenzie delle Nazioni Unite, di processi negoziali intergovernativi o di fora convocati dall’ONU per trattare questioni indigene. Sono inoltre apparse etnografie di missioni di peacekeeping dell’ONU che hanno messo in luce le contraddizioni e i limiti strutturali dei mandati e dell’azione di tali configurazioni e l’impatto limitato che esse hanno avuto rispetto agli obiettivi affermati per giustificarne il dispiegamento.

Il secondo tipo di analisi riguarda invece ricerche applicate rivolte a formulare raccomandazioni per il sistema dell’ONU o per i paesi membri. Tali analisi si fondano spesso su dati derivati da studi realizzati da esperti e practitioners, siano questi consulenti o funzionari di organizzazioni internazionali. Esse rappresentano l’equivalente di indagini applicate nel campo specifico della policy advocacy, nella quale rientrano i miei interessi di ricerca. L’uso di etnografie istituzionali, inoltre, sta prendendo piede per la valutazione dell’efficacia dell’azione di cooperazione internazionale nel campo dell’assistenza alla democrazia. Per questa ragione, è evidente che per realizzare le mie ricerche non potrei prescindere né dal primo, né dal secondo tipo di analisi. Mi sembra quindi difficile distinguere nettamente la linea di demarcazione tra ricerca pura e applicata.

In definitiva, le ricerche pure si basano sullo stesso materiale empirico su cui si fonda una ricerca applicata. Questo non significa che non ci siano differenze significative tra i due versanti, teorico e pratico, che compongono la produzione scientifica nel campo dell’applicazione. Le domande alle quali la ricerca applicata si propone di rispondere, infatti, sono diverse rispetto a quelle della ricerca pura, soprattutto in merito alla loro immediata rilevanza pratica, così come sono diversi i tempi, le finalità, la committenza e le tecniche di indagine. Per realizzare una ricerca che abbia rilevanza pratica, però, non credo che si possa evitare di affrontare questioni teoriche che sono strettamente connesse a tipiche problematiche di ricerca pura. Il campo dell’antropologia dei processi di sviluppo mostra l’importanza e la fecondità di questa contiguità.

BR, FT: La tua esperienza ci sollecita a tornare su interrogativi che hanno storicamente attraversato il dibattito fra antropologia “dello” e antropologia “per lo” sviluppo. Considerando il tuo punto di osservazione privilegiato, ci premeva avere una tua opinione in merito al contributo antropologico nei contesti di aiuto internazionale: fino a che punto pensi sia possibile applicare il nostro sapere senza rischiare di subordinarlo acriticamente alle richieste dei committenti o assimilare l’antropologo a un “ingegnere sociale” che offre soluzioni e ricettari in quanto unica voce autorevole che può pronunciarsi “in nome” delle popolazioni native?

Alcune distorsioni provocate dal rapporto tra committenza e consulenti hanno purtroppo contribuito a sminuire la credibilità di analisi antropologiche svolte senza il necessario rigore o subordinate acriticamente alle richieste dei committenti. A volte, inoltre, sono i committenti stessi a proiettare – nei termini di riferimento – immagini obsolete di antropologi come esperti di popolazioni o di comunità locali. Non è facile cambiare queste regole e questi stereotipi, eppure è possibile e necessario riformare il mondo della cooperazione al fine di attribuire il giusto peso sia all’antropologia dello sviluppo, sia a quella per lo sviluppo, le quali hanno ambedue una ragione d’essere.

Come in altre professioni, una delle strade individuate per risolvere queste contraddizioni consiste nell’elaborazione e nell’applicazione di un codice di condotta o di un codice etico, nel quale la SIAA si è cimentata per rispondere ad alcune delle sfide poste dal particolare ecosistema delle consulenze nel campo delle politiche pubbliche. Nella cooperazione internazionale, in particolare, esistono linee guida, principi e orientamenti che tutti gli attori coinvolti dovrebbero conoscere e rispettare, inclusi gli antropologi, come ad esempio quelli relativi alle attività di valutazione. Questi codici di condotta definiscono criteri e parametri che circoscrivono i confini di ciò che dovrebbe essere compreso in una performance professionale.

La condizione dei consulenti antropologi incardinati in ambito accademico è molto diversa rispetto a quella dei consulenti free-lance, più vulnerabili rispetto ai primi in un rapporto asimmetrico con i committenti. Eppure, l’affermazione di un codice di condotta è una garanzia sia per gli uni che per gli altri, in quanto è evidente che un livellamento verso il basso della qualità e dell’indipendenza dei consulenti comporterebbe una dequalificazione dell’analisi antropologica nel suo complesso.

Il contributo antropologico non consiste nell’attribuirsi il compito di parlare a nome di un gruppo di “beneficiari” o di popolazioni native, o nel disegnare a tavolino iniziative di sviluppo come un ingegnere potrebbe progettare un ponte o una diga. Sebbene esistano ancora nel dibattito sull’antropologia applicata, queste rappresentazioni sono sempre meno diffuse nell’immaginario della cooperazione internazionale. Il contributo degli antropologi consiste principalmente nell’analizzare problemi complessi che richiedono una riflessione consapevole sulle dimensioni sociali e culturali dello sviluppo che consenta di comprendere i vincoli e le potenzialità espresse in un concreto contesto di intervento. Tale analisi si può applicare a questioni cruciali per l’aiuto internazionale quali: la definizione dei problemi di sviluppo da affrontare; la considerazione dei limiti della razionalità tecnica impiegata dagli esperti, per migliorare l’efficacia e la sostenibilità delle soluzioni da loro proposte; la comprensione delle opportunità che la fitta rete di relazioni sociali esistenti in una popolazione offre, al fine di sperimentare ipotesi di cambiamento volte a incrementarne il benessere; le capacità degli attori coinvolti in una iniziativa di cooperazione allo sviluppo di agire come soggetti sociali e non come semplici destinatari passivi di interventi di sviluppo. Questo contributo ha senso solo a patto di fondarsi sull’esercizio di una prospettiva critica; qualunque ostacolo frapposto all’uso di una simile categoria contraddice la ragion d’essere dell’impiego del sapere antropologico.

BR, FT: Antonino Colajanni a metà degli anni Novanta ricordava come in questo ambito fra gli antropologi si manifestasse una certa contraddizione fra coloro che privilegiavano l’aspetto investigativo rispetto a specifiche dinamiche nei processi di cambiamento pianificato, coloro che tendevano ad assimilare il ruolo dell’antropologo a quello di un “mediatore” fra fronti contrapposti, o di un “facilitatore” di processi di adattamento delle società marginali ai processi di sviluppo, o ancora di un “diffusore” del patrimonio di idee, conoscenze, approcci propri della ricerca antropologica in contesti esterni all’accademia (1994: 161). Senti ancora attuale questa affermazione o avverti qualche tipo di cambiamento? Come interpreti il ruolo dell’antropologo in tale ambito? E ancora, come gestisci sul campo i tuoi diversi posizionamenti di antropologo, consulente, esperto, ricercatore?

MT: Ritengo che la contraddizione richiamata da Colajanni negli anni novanta sia ancora attuale, ma che siano cambiati forse i terreni nei quali si gioca la contrapposizione tra le due concezioni del ruolo dell’antropologo. Gli studiosi delle dinamiche dei processi di cambiamento pianificato sono chiamati a confrontarsi sempre di più con le macro-analisi delle politiche di cooperazione allo sviluppo, e con il rapporto tra queste e le politiche relative ad altri ambiti di intervento (finanza, commercio, tecnologia, ambiente ecc.). Le categorie impiegate venti o trent’anni fa per studiare le logiche del cambiamento pianificato a livello di progetti o programmi di cooperazione non sono sufficienti per la conduzione di simili macro-analisi. Queste ultime richiedono lo sviluppo di specifiche competenze di ricerca antropologica applicata. Quanto ai ruoli di mediatore, facilitatore o diffusore richiamati da Colajanni, credo che l’affermazione della retorica universalista dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile adottata dell’ONU abbia messo in evidenza che tali compiti, ancora attuali, tenderanno a esplicarsi sempre più al di fuori dei tradizionali ambiti di azione della cooperazione allo sviluppo e troveranno nuove declinazioni nell’ambito dell’erogazione di servizi pubblici in Italia, in Europa e in generale nel mondo cosiddetto sviluppato, sia ad opera di entità pubbliche che private, compreso il mondo delle nuove tecnologie di comunicazione.

Per quanto mi riguarda, ho sempre ritenuto che l’aspetto investigativo della nostra professione non si ponesse in alternativa rispetto agli altri possibili ruoli svolti in un ambito lavorativo. Si tratta di due funzioni ugualmente significative del lavoro dell’antropologo inserito in istituzioni pubbliche, dalla cui interazione deriva nello stesso tempo la solidità empirica e la rilevanza pratica della ricerca applicata.

Questa considerazione mi permette di rispondere anche alla domanda sulla gestione dei diversi posizionamenti nella mia esperienza lavorativa. Ho sempre cercato di bilanciare tali dimensioni nel momento in cui ho svolto le funzioni assegnatemi nei posti di lavoro e, nello stesso tempo, ho seguito un percorso di analisi concentrato su temi di ricerca applicata. Ad esempio, ho utilizzato la mia esperienza di Esperto associato nell’ufficio dell’UNESCO di Addis Abeba per studiare le politiche di reinsediamento attuate dal governo etiopico, un argomento del quale mi ero occupato ai tempi dell’Università a proposito della Tanzania. Ho successivamente lavorato per circa due anni come consulente occupandomi di Corno d’Africa, con incarichi di formulazione e valutazione di progetti in Etiopia e Somalia finanziati dalla cooperazione italiana. È evidente che la priorità assegnata dal Ministero degli affari esteri italiano, che era direttamente o indirettamente il mio committente, tanto a quell’area geografica, quanto a settori quali lo sviluppo rurale e la sanità, abbia svolto un ruolo importante nella mia scelta di occuparmi di quella regione e di quelle questioni. La focalizzazione sul tema di ricerca, ovvero le politiche di reinsediamento, è stata tuttavia una mia scelta. Ho trattato questo argomento con continuità in differenti contesti, analizzando questioni quali il sistema delle cooperative, la pianificazione dell’istruzione in Etiopia, i programmi di sanità pubblica in Etiopia e in Somalia, la villaggizzazione in Etiopia e in Tanzania. Ho pubblicato i risultati di queste analisi nel testo Nel nome dello sviluppo. Politiche di reinsediamento e conflitti in Africa orientale (Carocci 2013).

Quando sono stato assunto come Esperto di cooperazione nella Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del MAE, e in seguito nell’OCSE, la possibilità di conciliare ricerca e lavoro è stata inizialmente piuttosto limitata. Le procedure e le routines burocratiche nelle quali ero inserito non costituivano certo un ambiente ideale per concentrarsi su temi di ricerca applicata. Esse hanno rappresentato tuttavia un campo di indagine privilegiato nel quale osservare in azione le logiche di pianificazione dei differenti attori coinvolti in tali istituzioni. Per ottenere un riconoscimento dell’importanza dell’analisi socio-antropologica per le istituzioni nelle quali lavoravo ho dovuto investire nella ricerca applicata il limitato tempo libero dalle incombenze amministrative, conseguendo infine un dottorato di ricerca all’EHESS incentrato sul tema di ricerca che avevo perseguito in parallelo al mio lavoro.

Da queste esperienze ho ricavato due “terreni” di ricerca applicata strettamente correlati tra di loro, frutto in parte di scelta e in parte di opportunità, il primo dei quali ha una dimensione geografica (l’Africa orientale) e il secondo una dimensione istituzionale (le organizzazioni della cooperazione internazionale), nei quali ho svolto le mie analisi sulle politiche di reinsediamento e i conflitti e sulla valutazione delle politiche di cooperazione internazionale.

BR, FT: Venendo ai dilemmi etici, ci piacerebbe riflettere con te anche sulla rilevante questione della responsabilità scientifica dell’antropologo: di cosa e di chi ti sei sentito “responsabile” nei contesti di intervento? Qual è la natura dei rapporti che un antropologo dovrebbe costruire con i committenti, i finanziatori, i gruppi sociali “beneficiari” e gli altri interlocutori implicati nel contesto di intervento?

MT: Ritengo che il lavoro applicato comporti una responsabilità sociale che comprende sia le dimensioni di ricerca che quelle pratiche del nostro impegno. Ho già accennato alla necessità di distinguere l’area di controllo diretto dalla più ampia sfera di influenza indiretta, come premessa per definire la responsabilità personale dell’antropologo. Come molti altri antropologi che lavorano all’interno di istituzioni di cooperazione internazionale, ho avuto responsabilità sia dirette che indirette nelle decisioni di enti finanziatori in merito a iniziative attuate da enti esecutori che hanno comportato effetti attesi o inattesi su gruppi sociali “beneficiari”.

Le mie principali responsabilità dirette nell’Unità tecnica centrale della cooperazione italiana, ad esempio, hanno riguardato la correttezza, l’indipendenza e l’integrità delle analisi e raccomandazioni sottoposte al vaglio di organismi decisionali che hanno comportato l’approvazione, l’attuazione e la valutazione di singoli programmi di cooperazione. L’atto amministrativo più emblematico dell’esercizio di questa responsabilità è l’elaborazione e la firma del “parere tecnico”, nonché la supervisione o la gestione diretta del bilancio necessario per l’attuazione dell’iniziativa. Le responsabilità indirette hanno invece riguardato il contributo che ho dato alla formalizzazione di iniziative più articolate e complesse, quali ad esempio i “programmi paese”. Frutto di lavoro di équipe, tali programmi definivano una cornice strategica per i rapporti di cooperazione bilaterale tra l’Italia e un paese in via di sviluppo – l’Etiopia – nella quale si inseriva l’insieme delle iniziative della cooperazione italiana in quel paese. Il mio coinvolgimento comportava una responsabilità condivisa con altri esperti di cooperazione. Mentre nel primo caso la natura dei rapporti con i gruppi sociali “beneficiari” era più immediata, nel secondo caso tale relazione si fondava su rapporti inter-istituzionali con organismi dei paesi “beneficiari” responsabili delle politiche pubbliche nei settori trattati dai “programmi paese”.

Se da un punto di vista amministrativo nel Ministero degli affari esteri la principale responsabilità giuridicamente riconosciuta è quella diretta, in termini di responsabilità sociale quella indiretta è ugualmente se non forse ancora più rilevante. Mentre agli antropologi è raramente attribuita una funzione di guida di un gruppo di lavoro o l’esclusiva titolarità di un programma, è sempre più frequente il caso in cui ad essi venga richiesto di fornire pareri in merito a problemi o dossier complessi.

La questione della responsabilità andrebbe affrontata a partire dalla consapevolezza della agency dell’antropologo. Con questo termine mi riferisco alla sua capacità di agire indipendentemente e di fare delle scelte libere, anche nell’ambito dei vincoli tipici di un rapporto di impiego o di consulenza. Un antropologo deve esercitare il suo giudizio indipendente anche in un rapporto di lavoro nel quale è chiamato ad eseguire compiti e svolgere funzioni secondo termini di riferimento attribuitigli da un committente. Esistono spazi di libertà in un rapporto di consulenza, tanto è vero che uno degli atti che un committente valuta per il conferimento di un incarico a un consulente, oltre alla manifestazione di interesse, alla documentazione dei propri titoli ed esperienza e all’offerta economica, è la sua interpretazione dei termini di riferimento. Lo stesso vale a proposito del rispetto degli standard di performance richiesti a un pubblico ufficiale o a un funzionario internazionale.

BR, FT: La SIAA è un contenitore plurale che accoglie non solo una pluralità di esperienze e punti di vista rispetto alle opportunità di applicazione del sapere antropologico ma anche diversificati posizionamenti nello spazio pubblico (dal militante al consulente). Ritieni che gli antropologi dovrebbero mettersi a ragionare su cosa vuole dire avere a che fare con compiti centrati sulla consulenza, con o all’interno delle organizzazioni?

MT: Sì. Gli antropologi, a prescindere dalla loro occupazione, non possono più evitare di affrontare questa tematica. Ognuno di noi, nella nostra vita lavorativa, ivi incluse le eventuali esperienze in ambito accademico, deve conformarsi a standard deontologici che lo vincolano al rispetto di principi condivisi dalla propria comunità professionale. Il mio criterio fondamentale di responsabilità sociale è semplice: non potrei accettare un incarico se i suoi fini, o anche solo le sue modalità di attuazione, implicassero la violazione di tali norme di comportamento, richiedendo ad esempio di rinunciare ad esprimere un parere, di smussare i contenuti critici di una valutazione o addirittura di sostenere l’attuazione di un’iniziativa nonostante l’evidenza o la fondata convinzione della sua inutilità o dannosità. In molti casi gli effetti delle proprie scelte si manifestano a distanza di tempo dal momento in cui sono state effettuate. Ho perciò ritenuto utile rivolgere uno sguardo retrospettivo all’agire come antropologo nelle istituzioni, rivisitando i percorsi delle decisioni e interrogandomi criticamente sulle loro conseguenze. Ho inoltre ascoltato le ragioni di chi ha criticato il coinvolgimento del sapere antropologico nella cooperazione internazionale. Sottolineo però che alcune di queste critiche sono basate su stereotipi. Esse talvolta sopravvalutano il ruolo degli antropologi nelle istituzioni oppure sottovalutano la “agency” dei gruppi di “beneficiari”, talvolta caratterizzati a torto come vittime passive di scelte eterodirette. Le relazioni che si instaurano tra i vari soggetti in un rapporto di cooperazione allo sviluppo sono assai più complesse e richiedono una consapevolezza maggiore della responsabilità sociale di tutti gli antropologi, sia di quelli che aspirano ad esercitare un’influenza sui processi decisionali, sia di coloro che rigettano questa ipotesi come eticamente inaccettabile.

BR, FT: Da più parti gli antropologi che lavorano fuori dall’accademia ribadiscono come la formazione universitaria sia scarsamente sufficiente per misurarsi con i dilemmi dell’applicazione nello spazio pubblico. Secondo la tua esperienza, quali sono le competenze e gli strumenti necessari per lavorare come antropologi fuori dall’università? Quali metodi e strumenti ti sei trovato a ripensare/ridefinire nel corso della tua esperienza con l’obiettivo di innescare processi di cambiamento e fornire soluzioni operative?

MT: La formazione universitaria dovrebbe rinforzare lo zoccolo duro costituito dallo sviluppo di competenze di analisi antropologica, attraverso esperienze di ricerca sul terreno, integrandone e ampliandone i contenuti con un serio investimento nell’antropologia delle politiche pubbliche. Questo richiederà una maggiore attenzione alla domanda di competenze espressa – e soprattutto a quella inespressa – nello spazio pubblico che, se non considerata dagli antropologi, susciterebbe e incontrerebbe un’offerta formativa non qualificata fornita da altri ambiti disciplinari.

Per rispondere a questa esigenza, l’Università dovrebbe innanzitutto affrontare nuove tematiche accanto alle questioni che costituiscono il corpus tradizionale della ricerca antropologica in ambito accademico, come ad esempio il tema delle politiche pubbliche come costruzioni sociali. Sarebbe opportuno in secondo luogo integrare i profili di uscita degli studenti con competenze essenziali per permettere loro di inserirsi in un mercato del lavoro in continuo mutamento come, nel campo della cooperazione internazionale, la capacità di svolgere macro-analisi socio-antropologiche di politiche pubbliche e di sintetizzarle in maniera efficace per un’audience di decisori. L’Università dovrebbe, infine, aprirsi ai contributi di esperienza pratica di chi si è confrontato con questioni applicative in differenti contesti istituzionali, dal momento che il laboratorio dell’antropologo, in una dimensione applicativa, consiste principalmente nello spazio pubblico determinato dall’azione svolta da tali istituzioni.



[1] La conversazione-intervista si è svolta via e mail.