I servizi pubblici per le adozioni tra norma giuridica e nuove complessità familiari

Un contributo alla riflessione interdisciplinare

Silvia Chiodini

Centro Adozioni ASST Rhodense

Table of Contents

Introduzione
Operare sul campo
L’articolo 44, nella pratica
L’adozione internazionale, nella pratica
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. Italian law still define adoption as “closed”, cutting off any tie with biological family. Nevertheless, adoptees are more and more keepers of structured memories. In any case, they are actors of complex trajectories of life and tangled stories. In a wider context, it seems clear that adoption reality overcomes the narrow boundaries of law as well as the analytic prospective of professionalism and established practices. Therefore, today's adoptive complexity requires a redefinition of the dominant device: as a professional of an Adoption Centre, my contribution highlights the need of a change in approaching the issue by training to face adoption through new tools which allow us to better integrate the past, the present and the future of adoptees and their family connections. Field experiences lead to deal with different situations and often there is a sense of great confusion. In this situation, the professional's orientation influences the adoptee's possibility to access or not access to information related to his/her story. A guided knowledge of this information would allow he/she to be able to give a meaning to his/her own experience and create a fully meaning connection between the biological belonging and the adoptive one, that is an essential aspect to structuring an adoption really responding to the interest of the adopted child. From this view, the question is not to search for and to know one’s own origin relatives, but how to direct oneself to give sense to the living experience of adoption by referring to multiple roots and belonging.

Keywords: Public Services; Adoption; Interdisciplinarity; Kinship; Search for Origin.

Introduzione

Nella mia attività professionale presso un Centro Adozioni della provincia di Milano, un servizio che si occupa esclusivamente di adozioni, molto spesso mi trovo ad affrontare la questione “delle origini”, intese nell’ampia accezione di appartenenza, identità, relazioni parentali o amicali precedenti l’adozione (Andolfi, Cigoli 2003), incontrando vari livelli di difficoltà e di sofferenza nei familiari che chiedono aiuto (Chicoine et al. 2007). In collaborazione con una delle colleghe psicologhe del Centro, Simona Morra, e una collega esterna, antropologa e psicologa, stiamo lavorando per mettere a punto uno strumento che possa aiutare i bambini adottati, soprattutto quelli più grandicelli che conservano tanti ricordi della loro vita precedente l’adozione, a integrare il “prima” e l’“adesso”.

L’Italia è il secondo paese, dopo gli Stati Uniti, per numero di adozioni internazionali (CAI 2017) e solo parzialmente interessato dalla progressiva riduzione del numero delle adozioni (- 34%), che globalmente si attesta negli ultimi dieci anni su una riduzione del 73,5% e che in Spagna ha raggiunto quota 81% e in Francia 75%. Rispetto alle cause di questo generalizzato fenomeno di riduzione sono state fatte diverse ipotesi: sicuramente, come constatato anche dalla Commissione per le Adozioni Internazionali, alcune sono legate alle trasformazioni sociali, politiche, ed economiche dei paesi “donatori” e altre ai paesi di accoglienza.

In ogni caso, il panorama adottivo italiano è variegato e difforme, alcune regioni si sono dotate di regolamenti e protocolli, mentre per esempio Regione Lombardia è penalizzata dalla mancanza di indicazioni precise e aggiornate rispetto all’organizzazione dei servizi dedicati all’adozione nazionale ed internazionale, che vengono ricomprese nelle attività consultoriali (cfr. Vadilonga 2010).

Innanzitutto, è necessario tratteggiare una breve cornice preliminare per meglio comprendere il contesto legislativo dell’adozione in Italia. Infatti, dal punto di vista giuridico la legge italiana sull’adozione è una legge un po’ datata e, a mio parere, anche quando è stata emanata era fin troppo restrittiva, soprattutto sul tema dell’accesso alle informazioni, lasciando piena discrezionalità ai genitori adottivi sul come e quando parlare di adozione al figlio e contemplando la possibilità dell’adottato di accedere al suo fascicolo, ma solo a 25 anni. Interessante per comprendere lo spirito della legge e l’evidente sbilanciamento tra diritto dell’adottato e diritti delle famiglie adottive è il comma 8 dell’art. 28 della legge 149 del 2001[1], che stabilisce: «l’autorizzazione non è richiesta per l’adottato maggiore di età quando i genitori adottivi sono deceduti o diventati irreperibili».

Inoltre, sempre in base alla nostra legge, l’accesso ad eventuali informazioni riguardanti l’adozione devono essere autorizzate dal Tribunale per i Minorenni e spesso l’orientamento è abbastanza restrittivo. Per esempio, nell’adozione nazionale talvolta viene detto esplicitamente agli operatori che seguono l’abbinamento di non fornire molte informazioni sulla storia pregressa, oppure nel caso di bambini non riconosciuti alla nascita non viene fornita alcuna notizia sull’appartenenza etnica dei genitori biologici, con le comprensibili difficoltà dei genitori adottivi a gestire gli aspetti alla storia delle origini e dell’appartenenza (Ortolani 2011). A tal proposito risulta interessante la lettura della ricerca effettuata da Bonato (2013) presso il Tribunale per i Minorenni di Milano ancora ricca di spunti di riflessione e suggestioni. In questa ricerca, effettuata dal 2006 al 2010, riguardante le persone che in base al sopracitato articolo 28 (commi 3-7) hanno chiesto di poter accedere alle informazioni sulle loro origini biologiche, appare evidente come la fatica e la sofferenza emotiva maggiori siano di coloro che non possono accedere a tali informazioni perché non riconosciuti alla nascita.

A oggi non è ancora stata emanata una legge sul diritto alle origini, nonostante le ripetute sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani che condannano l’Italia e nonostante da più parti venga sottolineato come sia importante per “la buona riuscita” dell’adozione lavorare sulla cosiddetta “doppia appartenenza” (Moro 2005).

Quindi, in sintesi, non è errato ad affermare che il modello giuridico di adozione vigente in Italia è un modello chiuso, dove il bambino adottivo è “come se fosse veramente figlio della coppia”: infatti con l’adozione vengono rescissi tutti i rapporti e i legami con la famiglia biologica. E proprio in questa visione dell’adozione si inseriva l’indicazione che fino a qualche tempo fa servizi e istituzioni dedicate fornivano alla coppia adottiva: «da questo momento è figlio vostro e pensate al presente e al futuro» (Di Silvio 2008).

Gli operatori, tuttavia, lavorano in un contesto che, seppur delimitato dalla legge, è fatto di realtà vive, di storie, di genitori e di bambini che giungono in adozione con le loro relazioni e i loro ricordi impressi nella mente e nel corpo ed è proprio dai bambini che arriva la concreta spinta ad andare oltre e a rendersi conto, non solo teoricamente, che le adozioni “meglio riuscite” sono quelle in cui c’è veramente un’integrazione tra passato e presente, tra il “prima” e l’ “adesso”, tra storia biologica e storia adottiva (Giansante 2007). Non a caso internet e i vari social sono pieni di appelli di genitori biologici che cercano i figli e di figli che cercano fratelli e genitori biologici.

Operare sul campo

Nello specifico della nostra esperienza, nel corso del 2016 ci siamo trovati a dover affrontare la situazione di un bambino di otto anni proveniente dalla Repubblica Democratica del Congo, che con le sue resistenze ha fatto trapelare un mondo di relazioni, di appartenenza e di significati molto differente da quello dei genitori i quali, in un primo momento, si sono approcciati a lui come dei “classici genitori bianchi e italiani” di un bambino di otto anni senza ottenere alcun risultato, se non quello di una quotidiana squalifica del loro ruolo genitoriale. Come équipe abbiamo cominciato ad interrogarci su come affrontare la sofferenza evidente del bambino. Non sono mancate discussioni accese, dove gli approcci psicologici, pedagogici e sociali si sono scontrati senza arrivare ad una sintesi, portando avanti tentativi infruttuosi. Da questo confronto è emerso come una chiave di lettura prettamente psicologica o un approccio esclusivamente psicosociale non fossero sufficienti per comprendere e mettere in campo un intervento capace di fornire un fattivo sostegno a tutti i membri del nucleo familiare ed evitare così il rischio di un fallimento adottivo. É stato così deciso di cercare di ampliare la visuale, di cercare risposte anche fuori dall’ambito del servizio e di aprirsi a un approccio antropologico, in un’ottica di integrazione operativa, oltre che teorica.

Partendo da tutto ciò abbiamo cominciato a riflettere sulla necessità di tradurre concretamente le riflessioni teoriche sull’importanza di mantenere salde le connessioni tra passato e presente, fra “parentele” pre-adottive e parentele adottive, tra legami di sangue e legami affettivi, tra riferimenti culturali di nascita e quelli acquisiti con l’adozione.

Si sono avviate alcune riflessioni su come il classico “albero genealogico” non poteva, nella sua lineare verticalità, contenere e rappresentare la complessità delle storie di parentela e di appartenenza nell’adozione. Discussione dopo discussione, riflessione dopo riflessione, si è cominciata a delineare l’immagine di un albero a “mangrovia”, dalle radici rizomatiche, dove, sulla orizzontalità, si poteva rappresentare e connettere, cognitivamente, emotivamente e graficamente, la multi-appartenenza (cfr. Di Silvio 2016). È nata così l’idea di uno strumento grafico che potesse rivelarsi utile per i bambini, ma utile anche per i genitori che tanto spesso dimenticano (soprattutto quando i figli sono adottati in tenera età) di conservare una connessione, emotiva oltre che cognitiva, con le storie pregresse dei loro figli, agevolando anche la comprensione emotiva dell’importanza di integrare il “prima” e l’“adesso”.

Qualche tempo dopo la riflessione stimolata dal caso appena descritto, abbiamo preso in carico, con la stessa collega psicologa, una richiesta di adozione ex articolo 44 della Legge 184/83 così come sostituito dalla Legge 149/01, che disciplina l’adozione in situazioni particolari (Ferrando 2017), una richiesta che ci ha aiutato a passare dalle riflessioni alla prassi. Spesso in questi casi di adozione speciale ci si trova di fronte alla necessità di raccontare ai bambini la loro storia e mettere in ordine un complesso panorama familiare.

Nell’adozione ex articolo 44 il minore diventa figlio adottivo della coppia, ma trattandosi di un dispositivo che riguarda le situazioni in cui non sussistono i requisiti dello stato di abbandono previsti dall’articolo 7, non elimina i rapporti con la famiglia di origine. Infatti, l’adottato antepone il cognome del genitore adottivo a quello del padre biologico e quindi, burocraticamente, le due genitorialità coesistono e permangono.

In pratica, quando il Tribunale per i Minorenni emana un provvedimento ex articolo 44, il minore diventa figlio adottivo a tutti gli effetti, assume il cognome della nuova famiglia e i genitori adottivi acquisiscono il dovere di educare, istruire e mantenere il figlio, ne amministrano i beni ed esercitano su di lui la podestà ma non vengono interrotti de iure i rapporti con la famiglia di origine, né alcuni diritti/doveri reciproci.

L’articolo 44 declina rigidamente i casi in cui può essere applicato: il minore può essere adottato da persone legate da un vincolo di parentela entro il sesto grado o da un preesistente rapporto stabile nel caso in cui sia orfano di padre e di madre (lettera A), oppure dal coniuge del genitore biologico o adottivo (lettera B). Inoltre, l’applicazione è possibile quando il minore sia portatore di handicap ai sensi della legge 104/1992, se orfano di padre e di madre (lettera C), oppure quando vi sia la constatata impossibilità di un affidamento preadottivo (lettera D).

É evidente come sia importante in questo tipo di procedimenti una chiarezza sulle origini, mentre nella pratica operativa ci si trova spesso a confrontarsi con delle “verità familiari” inverosimili o poco credibili.

L’articolo 44, nella pratica

Nel caso specifico, Federico[2] era stato affidato dal Tribunale per i Minorenni agli zii materni dopo aver trascorso un periodo transitorio con la nonna materna in seguito all’uccisone della madre ad opera del compagno, nonché padre biologico del piccolo. Trascorsi alcuni anni gli zii materni, con l’assenso del padre biologico – all’epoca detenuto – e dei nonni paterni, avevano depositato istanza di adozione.

Al bambino era sempre stato raccontato che la madre era morta in un incidente stradale, mentre niente gli era stato detto del padre biologico, genericamente «partito per lavoro» da circa otto anni. Non gli era stata fornita alcuna spiegazione sull’accaduto e il bambino aveva sempre frequentato regolarmente la famiglia paterna (nonni e zio, fratelli nati dal primo matrimonio del padre), senza però conoscere quale legame di parentela lo legassero a loro, in un guazzabuglio indistinto di persone che Federico chiamava nonni, fratelli, cugini, zii in base a ciò che gli era stato detto. Sulla tragica vicenda, che aveva coinvolto la madre e di cui il bambino, dicevamo, era completamente all’oscuro, vigeva un segreto “di famiglia”, condiviso da entrambi i rami di parentela. In questa situazione, i nonni paterni avevano da sempre condannato quanto commesso dal figlio e si erano sempre dimostrati disponibili nei confronti del nipote e degli altri parenti acquisiti. Seppur con motivazioni differenti, anche loro avevano contribuito a mantenere salda, nel corso degli anni, la “consegna” del silenzio, ma sostanzialmente avevano accolto positivamente la decisione di informare Federico della sua storia, oltre a dare il pieno assenso all’adozione da parte degli zii materni.

La costruzione di uno specifico “genogramma” (Cirillo 2005) che utilizzasse, sullo stesso piano, più radici da ognuna delle quali partono ramificazioni diverse, ha corrisposto all’esigenza di rappresentare il complesso quadro delle relazioni familiari di questo bambino in cui erano presenti, come detto, il nucleo del padre biologico, quello della madre biologica di cui faceva parte anche la zia affidataria/madre adottiva, la famiglia dello zio affidatario/padre adottivo, i nonni, i cugini, i cugini/fratelli, oltre ai fratelli nati da precedenti unioni dei genitori biologici.

Un “albero” con una pluralità di radici rappresenta meglio la multi-appartenenza alla famiglia biologica e a quella adottiva. Così al bambino è stato chiesto di rappresentare attraverso un disegno una sorta di “bosco rizomatico” della sua famiglia su cui egli poteva scegliere dove collocarsi e dove collocare chi riteneva fosse suo parente: questo è stato lo strumento che gli ha permesso di rappresentare le sue relazioni parentali e ha costituito il mezzo per risalire alle origini in modo tale da comunicargli le dolorose vicende riguardanti la sua storia.

Il disegno del “bosco” è stato costruito e realizzato concretamente insieme al bambino, coinvolgendo anche i genitori adottivi in un movimento di circolarità in cui ognuno ha dato il proprio apporto, favorendo la comunicazione reciproca sullo svelamento del “segreto”.

Contestualmente a questo lavoro di ricostruzione della multi-appartenenza, è stato effettuato un incontro al quale, oltre al bambino, erano presenti gli zii/genitori adottivi e durante il quale gli operatori hanno potuto esplicitamente raccontare a Federico la sua storia e rispondere alle sue domande. Ritengo che tutto ciò sia stato possibile perché da un lato il bambino è stato preso in carico, e in qualche modo “preparato” dalla collega psicologa, dall’altro perché alla zia materna, sorella della vittima, è stato dato uno spazio di ascolto, apparentemente informale ma negli effetti sostanziale, in cui ella stessa ha potuto parlare e raccontarsi. Proprio da lei e dal marito è arrivata, infatti, la richiesta che noi operatori li aiutassimo a raccontare a Federico le drammatiche vicende in cui si trovavano tutti coinvolti.

La necessità di costruire uno strumento per raffigurare la multi-appartenenza è un’esigenza riscontrata anche nel lavoro con i bambini provenienti dall’adozione internazionale, in particolare con i bambini più grandi che hanno chiari ricordi del loro paese e delle figure parentali, con cui sono stati in contatto fino a poco prima dell’adozione, compresi eventuali fratelli.

Per questi bambini l’immagine della famiglia d’origine coabita fianco a fianco con quella della famiglia adottiva. Anche in questi casi, la pluralità di radici permette di rappresentare graficamente la molteplicità/complessità dei legami e propone un modello dell’adozione basato sulla multi-appartenenza, superando quello dell’esclusività della relazione (Dell’Antonio 1994).

L’adozione internazionale, nella pratica

Recentemente l’équipe è stata sollecitata con ulteriori riflessioni dal caso di Meselu, una bambina di origini etiopi di nove anni, adottata nel luglio 2015 insieme a una sorella di due anni e mezzo, mentre altre due sorelle, di sette e cinque anni, sono state adottate da un’altra famiglia, residente nel Centro Italia. Su indicazione dell’Ente Autorizzato le due famiglie sono rimaste in contatto per permettere alle bambine di conservare un legame tra loro. Nonostante qualche difficoltà dovuta alla differenza di stili educativi, nel primo anno le due famiglie si sono incontrate tre volte, ma le bambine possono sentirsi liberamente per telefono.

Meselu era molto legata alla sorella secondogenita. Nonostante ciò le due bambine sono state divise nel paese di origine al momento dell’abbinamento e inserite in nuclei familiari diversi. Le quattro sorelle al momento dell’adozione erano in un istituto da meno di un anno, il padre era morto l’anno precedente in seguito a un incidente sul lavoro e la madre, affetta da problemi psichici, non era in grado di occuparsi da sola delle figlie, le quali sono state allontanate e inserite nel circuito dell’adozione internazionale. Meselu ha confermato queste notizie aggiungendo che quando l’ultimogenita è nata c’era anche un gemello deceduto subito dopo la nascita; inoltre ha parlato di due fratelli e di una sorella più grandi, ormai autonomi, che sono rimasti in Etiopia.

Dal momento dell’inserimento in famiglia, la bambina più piccola ha monopolizzato le attenzioni dei genitori, soprattutto della madre, richiedendo un rapporto molto stretto di vicinanza corporea e alternando momenti di forte attaccamento a crisi di rabbia per il distacco e anche difficoltà ad accettare le frustrazioni e le regole. Meselu, di fronte alla sorella così richiedente, è rimasta in secondo piano, non le è stato dato spazio per esprimere le sue esigenze.

Nel settembre 2015 dopo solo due mesi dall’arrivo in Italia, Meselu ha iniziato la scuola primaria. Attualmente frequenta la quarta.

Da quanto riferito dalle insegnanti, Meselu nel corso del primo anno non si è inserita nel contesto scolastico, non ha costruito relazioni significative con i coetanei, a scuola ricerca di più l’attenzione delle insegnanti, non condivide interessi con i compagni. Inoltre, a tutt’oggi sembra non aver ancora imparato bene la lingua italiana (ha un vocabolario limitato) e, quindi, fa molta fatica a comunicare. Cerca di raggiungere però dei buoni risultati per far contenti i genitori.

La sua relazione con i genitori sembra essere ancora caratterizzata da un certo distanziamento emotivo, pur “riconoscendoli” come mamma e papà. I genitori stessi affermano di essere preoccupati perché Meselu dà confidenza ancora a tutti e pare non distinguere i familiari dalle altre persone estranee.

Stante queste difficoltà, alla bambina sono stati proposti, nel corso del 2016, alcuni colloqui psicologici individuali. All’inizio Meselu è parsa essere molto insicura, ancora disorientata, desiderosa di piacere e di farsi accettare. Il suo essere compiacente e accondiscendente la porta a non esprimere nulla di sé, né preferenze, né desideri, anche su un piano concreto. É come se non avesse uno spazio emotivo interno proprio ma neppure esterno. Anche lei, come peraltro fanno i genitori, riporta la preoccupazione per i comportamenti della sorellina più piccola anteponendo le esigenze di quest’ultima alle sue. É contenta, è tutto bello, sono tutti bravi, non racconta le sue fatiche ad “adeguarsi” al nuovo mondo e solo in un secondo tempo riconosce il suo senso di inadeguatezza di fronte ai genitori che «sono così bravi».

Lo spazio di ascolto con la psicologa, le ha però permesso di raccontare del suo passato, del paese d’origine a cui si sente molto legata. Meselu è parsa inizialmente preoccupata dal timore di far dispiacere alle persone, soprattutto ai genitori, temendo di non essere più accettata se avesse parlato loro delle sue origini. Tuttavia, accogliere nello spazio d’ascolto psicologico il bisogno di non chiudere con il suo passato, potendo esprimere anche gli aspetti positivi della sua esperienza pre-adottiva, l’ha aiutata ad avviare la costruzione di un ponte tra il “prima” e il “dopo”. La “consegna” proposta dalla psicologa di elencare tutte le persone per lei significative (quelle che sente come parenti), per costruire una sorta di mappa della sua famiglia, ha fatto sì che Meselu posizionasse sul foglio il nucleo familiare attuale – i genitori adottivi, la sorellina biologica, gli zii adottivi, la cugina adottiva, i nonni adottivi –, le due sorelle inserite in un altro nucleo familiare e i suoi legami in Etiopia, comprese le persone che ha lasciato – mamma, papà, i fratelli e i nonni. In un primo momento Meselu ha detto di non ricordare i loro nomi, ma la possibilità di sentirsi legittimata a dar spazio a persone e luoghi che sono vividamente presenti nella sua mente e con cui sente di avere dei legami, ha fatto sì che, in momenti successivi, si sia potuta “permettere” di ricordare i nomi e di scriverli in amarico, la sua lingua di origine.

Qualche tempo dopo, alla richiesta di disegnare «una situazione che per te significa gioia» (disegno delle emozioni), Meselu ha raffigurato un paesaggio del suo paese d’origine: un albero, il sole forte, tanti uccelli colorati, su cui ha scritto la parola Africa e a cui ha associato la presenza di tante amiche, le amiche che ha lasciato.

Un disegno da nostro punto di vista molto significativo che, insieme al consenso dato dalla bambina di appenderlo nell’ufficio della psicologa, ho sentito, personalmente e professionalmente, come un regalo prezioso verso chi ha dato legittimità a un’appartenenza che, dopo un anno di lontananza, è ancora identificata con la gioia.

Conclusioni

Come per gli altri casi descritti, in cui conoscere le informazioni sulla propria storia ha permesso di legittimare il presente riconoscendo il passato, così parlare dell’Africa ha permesso a questa bambina di cominciare a pensare al suo presente, cosa le piace e cosa desidera. Questa è stata l’ennesima conferma dell’importanza, in adozione, di dare ampio spazio al passato dei bambini per permettere loro di integrare in un continum il “prima” e l’“adesso”.

Quindi, non più una “verità narrabile”, definizione che evoca una sorta di censura tra le cose che si possono dire e quelle che non si possono dire (Guidi, Bosi 1992), ma una narrazione di appartenenza, dove possono trovare posto e legittimazione tutti i legami che hanno caratterizzato il “prima” e dai quali bisogna necessariamente partire per costruire l’oggi. Legami che fanno parte del bambino e ne faranno sempre parte, una doppia appartenenza che se valorizzata e integrata può permettere a tutti, bambini e genitori, di stare realmente meglio.

Non ritengo che il nostro lavoro sia terminato. La prospettiva è di realizzare, attraverso una collaborazione interdisciplinare, uno strumento grafico di facile utilizzo che possa contenere tutte le relazioni significative e che possa da un lato aiutare i bambini a sviluppare un senso di continuità tra le esperienze pre- e post-adottive, dall’altro consentire ai genitori a orientarsi senza timore in quella parte di vita dei loro figli che non hanno condiviso.

Bibliografia

Andolfi, M., Cigoli, V. 2003. La famiglia di origine. Milano. F. Angeli.

Bonato, A. 2013. «Mia madre non è “la madre”: la ricerca dell’identità nelle persone adottate», in Bambini a rischio di ingiustizia, (cura di) C. Schlesinger. Roma. Borla Editore. http://milano.minori.tribunale.astalegale.net/it/Content/Index/29202 (consultato il 19/4/2017).

Chicoine, J., Germain, P., Lemieux, J. 2004. Genitori adottivi e figli del mondo. I vari aspetti dell’adozione internazionale. Trento. Erikson.

Cirillo, S. 2005. Cattivi genitori. Milano. Raffaello Cortina.

Dell’Antonio, A. 1994. Bambini di colore in affido e in adozione. Milano. Cortina.

Di Silvio, R. 2008. Parentele di confine. La pratica adottiva tra desiderio locale e mondo globale. Verona. Ombre Corte.

Di Silvio, R. 2016. «If all relations change participants, how much should we be worry? Some notes and queries from the field of a multidisciplinary dialogue among anthropologists and psychosocial workers in Lombardy region, Italy». Ricerca inedita presentata a ASA 2016, Durham, UK.

Ferrando, G. 2017. «L’adozione in casi particolari alla luce della più recente giurisprudenza» in Diritto delle Successioni e della Famiglia, 1:48-61. http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Relazione_Prof_ssa_Ferrando.pdf (consultato il 25/5/2017).

Giasante, A., Rossi, E. 2007. Affido forte e adozione mite: culture in trasformazione. Milano. Franco Angeli.

Guidi, D., Bosi, S. 1992. Guida all’adozione. Milano. Mondadori.

Moro, M.R. 2005. Bambini di qui venuti da altrove. Saggio di transcultura. Milano. Franco Angeli.

Ortolani, L. 2011. Due figlie e altri animali feroci. Milano. Sperling & Kupfer.

Vadilonga, F. 2010. Curare l’adozione. Modelli di sostegno e presa in carico della crisi adottiva. Milano. Raffaello Cortina.



[1] http://www.camera.it/parlam/leggi/01149l.htm (Consultato il 10/4/2017).

[2] I nomi utilizzati sono inventati.