Immaginandosi insieme

Il ruolo della fotografia nell’adozione internazionale

Chiara Costa

Research Centre for Children, Families and Communities, Canterbury Christ Church University

Table of Contents

Artifici e de-costruzioni
Performare famiglia
L’immagine nella co-costruzione familiare
Produrre e mostrare immagini
Conclusioni
Bibliografia

Abstract. This paper aims at reflecting on the practices of co-construction of kinship within intercountry adoption families. Factitious elements of making family will be analysed, together with the mechanisms of social construction that underpin it, thus offering a peculiar gaze of ideologies and narratives that rule the regulation and reproduction of family models. Creativity and performativity of kinship shed light on individual expectations, which have to be adapted and translated into a collective and shared language that could support the beginning of an intimate relationship within the household. For what concerns kinship creation and co-construction through intercountry adoption, the photographic tool plays a significant role in transforming the intimate experience of biological strangers living together through the production of shared memories. The images that families selected and recounted within their households offer a support to rethink and negotiate daily life through the production of pictures that allow family members to look, talk and think about themselves as a family since the beginning. The creative and interpretative power of the subjects reveals its essential role in shaping experiences and finding a space of expression through the construction of resistance and continuities. In shooting and displaying family pictures, processes of kinship construction are evoked in all their unicity and fragility, revealing mediation and understandings that underline the intimate knowledge of subjects, often strangers for each other in terms of socio-cultural and experiential past.

Keywords: Adozione internazionale; Famiglia; Antropologia; Fotografia

Artifici e de-costruzioni

Le interpretazioni antropologiche delle relazioni famigliari mi hanno sempre affascinata. I racconti remottiani (Remotti 2013) dell’accidentale gaffe di Bronislaw Malinowski (1929) in Melanesia, che esaltò la somiglianza fisica di due fratelli ignaro del fatto che il ruolo del marito della madre fosse proprio quello di plasmare il loro volto rendendolo unico e irripetibile, mi introdussero al variegato mondo di “essere” e “fare” famiglia. Leggendo i grandi classici della parentela, il passaggio dall’irrinunciabilità del legame biologico di David Schneider (1972, 1980) all’infervorata difesa delle logiche culturali che sottendono ogni pratica familiare di Marshall Sahlins (2013) fu breve. Ero interessata in particolare a quelle pratiche della parentela che si spingono oltre il legame di sangue, quelle modalità di costruire la famiglia che perdono il loro elemento biologico e si strutturano esclusivamente sulla parentalità sociale all’interno di un contesto dato. L’antropologa Signe Howell (2009) mi introdusse con sguardo critico al ruolo delle pratiche adottive e in particolare alla relazione fra natura e società (nature/nurture), capace di creare e mantenere il legame e senso di appartenenza nei nuclei familiari. Pensato vestendo i duplici panni di ricercatrice e di genitore adottivo, il lavoro di Howell verteva in particolare sulle pratiche di costruzione delle relazioni familiari, evidenziando il paradosso del legame fra famiglie biologiche e famiglie adottive: la parentela “naturale” poteva quindi essere definita come tale solo in opposizione a quella “costruita”. Senza l’una, l’altra si svuotava del suo significato[1] (Howell 2009: 152).

Facendo mia questa lezione sulla condizione di interdipendenza, ho col tempo iniziato a guardare al processo adottivo come un mezzo, una pragmatica “lente” per esplicitare i meccanismi di ingegneria sociale che sottendono tutti i nuclei familiari, indipendentemente dalla loro origine. Perché, se la parentela si sviluppa all’interno di un contesto sociale e deve strutturarsi ed essere performata rispettando le norme che la regolano, la natura delle famiglie nate da adozione fa sì che per esse questa pressione applicata dall’esterno per una loro conformità sia maggiore. Nella creazione di un nuovo nucleo, infatti, precisi criteri di selezione supportano l’abbinamento di genitori e bambini affinché rispecchino modelli familiari pre-esistenti e possano generare “famiglie includibili” (Modell 2002). Tale condizione è riscontrabile anche quando negli ingranaggi dell’adozione vengono inclusi soggetti che non rispecchiano uno specifico ideale familiare: le stesse policies che regolano la costruzione legale di nuove famiglie rispondono implicitamente a dei criteri di adeguatezza in cui non rientrano, ad esempio, genitori single, o bambini al di sopra di una certa età (Leinaweaver 2015).

Esplicitando i processi che danno vita a senso di appartenenza e relazioni di intimità e parentela (Howell 2003), ritengo che l’adozione offra uno sguardo privilegiato nell’analisi dei meccanismi alla base della regolamentazione e costruzione delle famiglie, confermando che «non vi è nulla di meno naturale della famiglia» (Saraceno 2012: 15).

In particolare, l’esperienza di un incontro fra estranei che nella convivenza divengono famiglia crea uno spazio di osservazione privilegiato dell’emergere delle diverse strategie familiari. Le pratiche adottive permettono di scorgere le diverse modalità in cui la genitorialità viene percepita e organizzata, mostrando con forza la complessità delle relazioni di parentela e come tali gruppi facciano fronte alle alterazioni interne, come ad esempio il rapporto fra possesso e protezione.

Guardando all’incontro della famiglia adottiva, l’aspetto che ha attirato il mio interesse è stato come, a partire da esperienze e aspettative radicalmente diverse, il senso di appartenenza possa modularsi proprio iniziando dalla co-costruzione di relazioni fra i soggetti interni a un gruppo familiare, e dalle aspettative ad esse legate. Volevo ascoltare genitori e figli raccontare la graduale acquisizione di reciproche competenze e di una condivisa intimità. Un procedimento spesso reso fluido nelle famiglie biologiche che l’adozione, a causa dei passaggi di controllo, anonimato e burocratizzazione, finisce per “spezzare” nelle più delicate fasi di adattamento reciproco - abbinamento, primo incontro, prima esperienza di convivenza, ri-negoziazione dei ruoli familiari.

Durante lo svolgimento della ricerca, ero interessata alla possibilità di creare una situazione che permettesse la partecipazione di tutti i soggetti del nucleo familiare. A tal fine, fra l’autunno del 2012 e l’estate del 2013 ho sviluppato un progetto fotografico strutturato in tre incontri, cui dieci famiglie hanno dato la disponibilità a partecipare. Nel corso del primo incontro, sono andata a trovarle a casa accompagnata da una fotografa che ha scattato loro delle fotografie nelle pose e circostanze che preferivano[2]. In un secondo momento, sono tornata dalle famiglie per un’intervista non strutturata che si è svolta a casa loro. Infine ho portato alle famiglie le fotografie scattate insieme.

In questa sede non verranno mostrate foto delle famiglie coinvolte, che hanno generosamente dato la loro disponibilità per l’utilizzo delle loro immagini a esclusivo beneficio della realizzazione della ricerca. Inoltre, per rispettare l’anonimato dei partecipanti, tutti i nomi riportati sono fittizi e italiani, nonostante i/le figli/e adottati/e siano di diversa provenienza.

Performare famiglia

Le famiglie, residenti nell’area geografica di Torino e provincia, hanno rappresentato uno spaccato molto eterogeneo, con figli provenienti da dieci Paesi differenti (Bolivia, Cina, Etiopia, Filippine, India, Madagascar, Nepal, Perù, Repubblica Democratica del Congo, Sri Lanka), adottati a un'età compresa fra i quattro mesi e i quindici anni, e da un tempo variabile fra l'uno e i ventinove anni. Fra di loro vi erano anche fratelli, in tutte le combinazioni possibili: fratelli adottati in paesi diversi o dallo stesso paese ma in periodi diversi, fratelli biologici adottati insieme, presenza di figli biologici dei genitori adottivi, o figli provenienti dall'adozione nazionale.

Salvo poche eccezioni, le interviste si sono svolte sia con i genitori che con i figli, all’interno degli spazi comuni delle loro abitazioni. La scelta metodologica di coinvolgere entrambi ha indubbiamente condizionato il registro e le direzioni delle riflessioni nate nel corso delle interviste, che si sono svolte attraverso i tre incontri nella forma di narrazioni condivise. Essere accolta nella casa di ciascuna famiglia mi ha permesso di accedere a una sfera privata che si è rivelata fondamentale, principalmente per due ragioni. La prima è che la condivisione di ricordi e confronti privati hanno preso vita in spazi (il salotto, o la cucina) dove le stesse esperienze di cui raccontavano avevano avuto luogo, e venivano esposte o racchiuse. La seconda si ricollega invece alla possibilità, da parte di genitori e figli, di poter avere accesso quando lo ritenessero opportuno a supporti sensoriali (visivi, tattili, uditivi, gustativi) che ritenevano essere rilevanti per potermi guidare attraverso le loro memorie ed esperienze. La scelta del setting è stata quindi importante nel consentire alle famiglie stesse un posizionamento che permettesse loro di orientare memorie e narrazioni all’interno di uno spazio dai molteplici significati: una comfort zone che ampliasse il senso di sicurezza nel condividere le esperienze personali. Un luogo che permettesse loro di orientarsi e guidarmi nelle geografie spaziali dei ricordi e delle pratiche quotidiane legate alla casa stessa - ad esempio, mostrandomi l’angolo dietro alla porta principale dove la bambina di due anni aspettò il papà tutto il giorno in attesa che rientrasse, la fotografia situata in un punto particolare del salotto, l’accessibilità del mobile che contiene i libri per imparare la lingua del paese di origine. Non ultima, la possibilità delle famiglie stesse di recuperare materiale della memoria quando lo ritenessero necessario per posizionarlo a livello diacronico. Questo procedimento ha permesso ai soggetti coinvolti di condurre e plasmare le nostre conversazioni, mettendo in luce il loro sguardo sulla negoziazione che sottende la costruzione del nuovo nucleo familiare.

Un aspetto sottolineato da quasi tutti i partecipanti è stato proprio il peso dell’elemento della negoziazione nell’adozione internazionale, dove la distanza linguistica, geografica e socio-culturale acuisce le differenze nella percezione dello spazio abitativo, della corporeità, dei ruoli e delle aspettative familiari. Infatti nei processi di mobilità infantile anche gli adottati proiettano aspettative sul percorso migratorio che li porta a divenire parte di una famiglia adottiva (De Graeve 2015). Questi processi di costruzione del nucleo familiare esplicitano accordi e mediazioni che sottendono una intima convivenza abitativa fra soggetti inizialmente estranei gli uni agli altri in termini esperienziali, culturali e di aspettative.

Avere la possibilità di svolgere questa ricerca insieme alle famiglie ha permesso anche di mettere in luce la relazione fra macro e micro fenomeni dell’adozione internazionale. Essa è infatti strettamente connessa sia con la sfera intima del divenire famiglia che con le implicazioni sociali e politiche del fatto che «l’adozione avviene quasi esclusivamente in una direzione, dai paesi poveri a quelli ricchi, o all’interno delle nazioni, da donne e ragazze povere o comunque vulnerabili a donne benestanti, con maggiori sicurezze»[3] (Briggs 2012: 82). Tali elementi – povertà, precarietà, ineguaglianze geografiche e globali – hanno effettivamente ripercussioni sui processi del creare famiglia, come la presenza di familiari rimasti nel paese di origine, o le storie personali dei bambini che spesso non possono essere riassunte nelle narrazioni di legittimità dell’atto adottivo (Herman 2002; Howell 2009; Yngvesson 2002), del bambino orfano abbandonato come ultimo atto d’amore (Herman 2002) o di una donna e madre “altra” priva degli strumenti necessari per prendersi cura dei propri figli (Roberts 1997, 2014).

Nel tentativo di restituire alcuni aspetti della ricerca, mi concentrerò in particolare sul duplice scenario a cui lo strumento fotografico mi ha permesso di accedere: il primo si focalizzerà sull’utilizzo del supporto visivo nella produzione di memoria all’interno dei nuclei familiari, mentre il secondo riporterà alcune suggestioni sulla relazione fra foto-elicitazione e memoria sensoriale.

L’immagine nella co-costruzione familiare

Il risvolto inaspettato nell’utilizzo di questo metodo è stata la naturalità con cui le famiglie hanno introdotto supporti visivi personali (quadri, album cartacei, foto digitali). Se da un lato le narrazioni sono state spesso accompagnate dalle immagini, seguendo un ritmo difficile da interrompere o ridirezionare (Mason, Davies 2009), dall’altro la parte più interessante di questo lavoro è stata proprio la possibilità di entrare nei flussi narrativi della famiglia che si racconta attraverso le proprie fotografie. Il pretenzioso obiettivo che mi ero posta era infatti quello di osservare le rappresentazioni familiari prodotte con la fotografa, e ragionarci insieme. Con una certa frustrazione, però, ho ben presto realizzato che le immagini scattate con loro durante il primo incontro non erano di grande stimolo per le famiglie con cui le osservavo. In principio mi sono interrogata sulle ragioni di questo risultato. Dove risiedeva il problema? Non avevo spiegato in maniera chiara lo scopo delle attività da svolgere utilizzando le foto, o non ero stata in grado di guidare in maniera adeguata l’attenzione di chi le osservava? Nell’introdurre il metodo della foto-elicitazione, John Collier (1967) esplicitò come la narrazione di foto di famiglia sia una pratica molto intima, che presuppone un particolare grado di rapporto fra il ricercatore e gli intervistati. In effetti, la disponibilità ad aprirmi le porte e a condividere storie di vita con me, un’estranea, mi ha spinto a tutelare il loro riserbo al di là dell’etica della ricerca, e a non forzare il dialogo nelle situazioni in cui il racconto non si sviluppava in modo spontaneo. Ritengo infatti che la diffusione di riflessioni confidenziali su storie e immagini che riguardano altre persone sia eticamente complessa, in quanto il diritto alla condivisione di tali memorie appartiene a loro. La necessità di rispettare i loro silenzi corrisponde al riconoscere queste foto di famiglia come «complicati territori di memoria, etiche e politiche»[4] (Doucet 2018: 22), che espongono spazi di vulnerabilità ripensati, ri/narrati e riassemblati in accordo alle necessità del momento individuale e relazionale che si sta attraversando. Uno sguardo che penetra nella memoria, la interpreta rispetto all’uso necessario nel momento in cui viene consultata, e a sua volta ne viene influenzato (Faeta 2011). Seguendo questo flusso di reciproche influenze, al pari delle perturbazioni prodotte dalla presenza del ricercatore nel suo ingresso sul campo di ricerca (Piasere 2002), la presenza mia e della fotografa nelle case delle famiglie ha sin dal primo incontro attivato in loro il desiderio di utilizzare a loro volta supporti visivi personali per raccontarsi.

In questo senso, mentre gli scatti prodotti con la fotografa si sono rivelati meno stimolanti del previsto[5], mi sono trovata nella situazione in cui, senza una mia esplicita richiesta in merito, le famiglie hanno utilizzato per raccontarsi le loro fotografie. Tutte le immagini che mi sono state mostrate sono state frutto di una scelta autonoma, e l’accesso alle foto storiche inserite negli album di famiglia è sempre stato scandito e regolamentato dai membri della famiglia stessa.

Nell’utilizzo del supporto fotografico, sono emerse tutte e tre le dimensioni che Douglas Harper (2002) ha evidenziato nei contesti di ricerca socio-antropologica. La prima è legata alla fotografia come artefatto, un oggetto pregno di significato che viene posizionato, esposto (o tenuto privato) e con cui ci si relaziona in una particolare maniera. La seconda è relativa a quelle che Pierre Bourdieu descrisse come pratiche convenzionali e ritualizzate di riaffermazione dell’appartenenza al tessuto sociale di riferimento, e di conformità con le norme del gruppo. Infine, la terza dimensione è quella della costituzione e conferma del nucleo familiare nella sua dimensione più intima.

Essendo il lavoro di ricerca incentrato sui processi di co-costruzione dei legami parentali all’interno delle famiglie adottive, questo paragrafo si focalizzerà in particolare sul primo ed ultimo aspetto, emersi con forza sin dal primo incontro, avvenuto con Paola, Mauro e Lidia. Mauro mi stava raccontando del giorno in cui andarono all’hogar (istituto per minori) a vedere per la prima volta quella bambina, la loro figlia. Descriveva questi ripidi scaloni che portano all’ingresso dell’istituto per minori, e di come una volta arrivati in punta si fossero sentiti mancare il fiato. «Forse hai delle foto, dell’hogar»[6] – dice Paola alla figlia Lidia indicando col dito un cassetto della madia. Lidia porta l’album di famiglia a Paola, che lo apre e mi mostra la prima fotografia, una bambina di sei mesi in braccio a una suora sorridente, sotto un porticato.

Mauro: «E poi ci hanno portato lei».

Paola: «Tutta vestita profumata».

Mauro: «Ah sì perché lì le lavavano, le profumavano».

Paola: «Il giorno prima il bagno, tutto, vestita bene, tutta carina, sembrava un bambolotto. Invece di guardare me, ha guardato il padre».

Paola, girando pagina e mostrandomi un’altra fotografia di gruppo: «Questo è stato il primo incontro, come ce l’hanno portata»[7].

Nella foto che mi mostra Paola sono raffigurati l’assistente sociale, la direttrice del centro, la traduttrice, lei, Mauro e Lidia. In linea con quanto riscontrato da Roland Barthes (1980), l’album veniva sfogliato alla ricerca di foto specifiche, intorno alle quali articolare ricordi e sensazioni, combinando le immagini secondo un ordine che sembrava rappresentasse le basi della loro relazione familiare. Il modo in cui Paola si orientava fra le figure ritratte e gli anni segnati dietro le foto rendeva chiaro che sfogliare quelle pagine traendone un senso della loro storia fosse una pratica prettamente privata, impossibile da cogliere senza la loro guida (Mason, Davies 2009). L’album diventava uno spazio, una mappa in cui muoversi alla ricerca di ricordi posizionati anche lontani gli uni dagli altri, ma uniti nel particolare valore che li rendeva significativi per la narrazione collettiva di quella memoria. La loro selezione e spiegazione seguiva una logica condivisa da Paola, che “guidava” il discorso attraverso le immagini, e gli altri membri della famiglia. Il ripensare quelle esperienze significative insieme permetteva loro di rievocarle in termini percettivi, e riportare alla memoria ricordi che non sarebbe stato possibile recuperare senza tale supporto.

Paola: «Andavamo da lei [Lidia] e la mettevamo nel passeggino, tutta bella coperta, le facevamo fare il giro di questo giardino, bellissimo, tutto pieno di fiori, e lei dormiva, tranquilla. Si vede che si sentiva protetta. Infatti dopo una settimana ha iniziato a seguirci con gli occhi. Quando andavamo via ci seguiva con gli occhi, come per dire ‘adesso questi se ne vanno’, e poi un giorno presi in braccio un bimbo perché lei dormiva, poi si è svegliata, ha visto il bambino in braccio e ha fatto degli occhi proprio come se avesse voglia di piangere, come se mi dicesse ‘allora sei [qui] per me o per lui?’. E la cosa è andata avanti ancora un paio d’ore, era ben seccata»[8].

Come emerge da questo estratto, le fotografie aiutano Mauro, Lidia e Paola a evocare e arricchire con altri elementi sensoriali la condivisione del racconto nel contesto della creazione del legame adottivo. Le immagini non si presentano in quanto copie o raffigurazioni della realtà, ma come visioni soggettive, selezioni di emozioni, ricordi e impressioni, che costruiscono e strutturano il mondo in una modalità che ognuno percepisce come personale. Come una selezione di tappe fondamentali, le immagini contengono e preservano le memorie in senso letterale e materiale, confermando il loro ruolo simbolico e funzionale nel garantire uno spazio protetto e un tempo collettivo che permetta di ripercorrere tali esperienze (Hirsch 1997). I ricordi che Lidia, Paola e Mauro hanno condiviso con me sono infatti stati raccontati come chiaramente definiti. Ma potrebbero anche essere rianimati a partire dalle necessità familiari nel ricordare una particolare situazione, relazione, evento utile nel restituire ai membri della famiglia uno strumento di narrazione che possa adattare la propria auto-rappresentazione al momento vissuto. Allo stesso tempo, il modo in cui mi raccontano queste prime immagini si situa in posizione liminare fra il desiderarsi intimi («invece di guardare me, ha guardato il padre») e lo scoprirsi estranei («questo è stato il primo incontro, come ce l’hanno portata»). Tuttavia, nel momento in cui i ricordi condivisi iniziano a essere generati, la fotografia, strumento fisico della memoria, inizia a dare forma a ciò che si sta diventando. Così le fotografie che Paola mi mostra sono accompagnate da racconti di eventi avvenuti in seguito allo scatto, da emozioni che si sono trasformate negli anni: sono un presente dell’immagine puramente evocativo, e permeato di eventi passati e futuri che hanno trasformato il suo significato in seno alla famiglia. Attraverso questo procedimento, l’immagine rafforza la prossimità, partecipando al processo di concretizzazione: si abitua l’occhio in attesa che si abituino le relazioni. Aggiungere un elemento alla famiglia richiede la necessità di un rimodellamento degli equilibri, da parte di tutti i membri. Nel contempo i bambini, provenienti da altri contesti linguistici e socio-culturali, portano con sé oltre a un’alterità somatica e percettiva una diversa modalità di esprimere e vivere l’esperienza dell’essere bambini e dell’essere figli. Nella necessaria negoziazione delle somiglianze e delle differenze, le immagini sono capaci di spostare in secondo piano modalità e intenzioni della pratica adottiva, e mettere in evidenza il potere di una complessa relazione irrequieta, che ha bisogno di essere ininterrottamente confermata.

Nella prospettiva dei genitori, strutturati e organizzati a partire da una relazione duale, accogliere nel loro spazio abitativo un’altra persona necessita la contrattazione di modalità di cura e di coabitazione. Nel caso dell’adozione internazionale, le peculiarità culturali che si accompagnano alla differenza somatica vengono spogliate della loro semantica e private di interlocutori capaci di comprenderle nella loro totalità, diventando alterità, nuda e priva di canali condivisi. Il concetto, che spesso viene espresso nei termini di un "non conoscersi", si rivela nei racconti delle famiglie adottive più come una generale mancanza di codici, un analfabetismo condiviso che con il tempo e la prossimità viene superato. Come è successo a Sara e Marco durante il primo giorno trascorso con i figli. Durante il nostro incontro, Marco mi mostrò una fotografia scattata il primo giorno trascorso insieme, loro con i figli seduti in un prato, tutti sorridenti. Ripercorrendo quella giornata, mi raccontarono di quando la sera arrivò il momento di fare la doccia.

Sara: «E ci siamo fatti il problema di dire ‘Ma io adesso questi me li maneggio così da zero (…) magari gli dà anche fastidio’ (...) oltretutto una cosa che a me ha sempre impressionato tantissimo è l’idea che un bambino che si ricordava di sua mamma mi chiamasse mamma, cioè, mi immaginavo cosa non potesse essere da un punto di vista di una violenza per lui (...). Poi (…) come dire, (…) un’idea che noi avevamo era anche quella di dire ‘Se noi diamo per scontato che questa è la normalità, anche loro coglieranno il senso di normalità di questa cosa’ (…) e poi appunto mi ero portata della crema che comunque era un modo (…) per stabilire contatti, (...) e anche era un modo per dire ‘Io ti tocco ma con un compito preciso, per cui poi se ti piace possiamo andare oltre, se non ti piace comunque un po’ per volta’, no?»[9].

Le parole di Sara mostrano il potere dinamico e creativo dei soggetti, capace di intervenire e manipolare le esperienze e di occupare uno spazio di espressione e rivendicazione nel quotidiano. Nella dimensione privata e intima della costruzione parentale, l’adozione si trasforma in territorio franco, dal quale nascono strategie di convivenza. Le esperienze e le istanze degli individui coinvolti nella creazione del nuovo nucleo familiare vengono portate, manifestate e rese peculiari da ogni soggetto a partire dalle diverse modalità di espressione e di percezione. La fatica quotidiana del vivere e scoprirsi insieme col tempo diventa lessico comune, mezzo comunicativo fondamentale per la costruzione della famiglia, e si trasforma in linguaggio empirico. È un lavoro di decostruzione dell'altro, che da estraneo diventa lentamente intimo.

Vedersi insieme è un’attività complessa, mi spiegano Sara e Marco descrivendo il loro primo incontro con i figli, come il ruolo verticale del genitore che sopraggiunge senza soluzione di continuità, e con l’urgente necessità di conoscere il modello esperito d’infanzia, della storia e delle aspettative e l’agency che il bambino porta con sé.

Sara: «Quando ci siamo incontrati si dava per scontato che noi eravamo il papà e la mamma e loro ci chiamavano papà e mamma, salvo poi il fatto che all’inizio chiamavano tutti papà e mamma. Per loro papà e mamma inizialmente era l’adulto bianco. Noi non eravamo identificate come figure di riferimento se non perché abitavamo insieme»[10].

Il diventare famiglia richiede di ridurre i conflitti interni, una possibile negoziazione delle differenze – di ideologie, rappresentazioni, aspettative – che influenza e definisce l’investimento affettivo e il sentito sia della famiglia che del legame genitori-figli (Di Silvio 2008). Allo stesso tempo, questo processo interagisce con il contesto che lo circonda, un movimento circolare di reciproche definizioni dove i soggetti sono prodotti e produttori di memorie e di interpretazioni dei vissuti. La famiglia in divenire rappresenta uno spazio di interazione che combina diverse soggettività, esprimendo la loro agency nell’affrontare in maniera critica e creativa i processi (Di Silvio 2008) che sottendono la costruzione di gruppi domestici capaci di resistere alle differenze interne. Le immagini divengono ausilio per la famiglia nel generare elementi comuni in cui rispecchiarsi e attraverso i quali riflettere su se stessa, producendo una memoria interna al nucleo, resistente e flessibile. Tale memoria, capace di cambiare forma e densità in relazione alle trasformazioni strutturali della famiglia, rimane tuttavia permeabile, aperta a differenti narrazioni che i membri della stessa possono decidere di impiegare nel tempo.

Produrre e mostrare immagini

Un altro passaggio fondamentale nel consumo delle immagini, definite dal loro contesto tanto quanto dal loro contenuto (Hirsch 1997), è la loro produzione. Ci tengono a sottolinearlo Andrea, Claudia e Piero quando mi raccontano la storia delle due composizioni fotografiche appese sul muro nella loro cucina. Entrambe le composizioni sono divise in due sezioni. Nella parte superiore, il viso di un genitore e del figlio. Nella parte inferiore, le loro mani intrecciate. Le due composizioni sono posizionate una di fianco all’altra. Una ritrae Andrea e Claudia, l’altra Andrea e Piero. Il genitore mancante nella fotografia era dietro l’obiettivo, a scattarla. Come sottolineato dalla famiglia stessa, anche se non sono rappresentati tutti e tre assieme, è come se lo fossero. In questo caso, l’autore dello scatto ricopre un ruolo fondamentale nella composizione e produzione dello stesso. La costruzione dell’immagine - ad esempio quale attimo cogliere, quali soggetti ed elementi includere, con quali scelte plastiche ed estetiche rappresentarli - rende possibile ricreare suggestioni, momenti sospesi che rappresentino un rapporto capace di trascendere il tempo. Questa è la prima fotografia cui si fa riferimento parlando della loro storia insieme, e i significati simbolici che vengono attribuiti al gesto delle dita intrecciate fra loro sono molteplici: un incontro lungamente atteso, destinato ad avvenire; i diversi percorsi, e i corpi stessi, che si intrecciano per diventare uno; l’impossibilità di distinguere le appartenenze di ogni arto, che non pretende la fusione ma rinnega la possibilità di identificare le singolarità al di fuori dell’insieme, per creare un messaggio innanzitutto per loro stessi che dica: noi ci apparteniamo, e nel contempo riaffermi il processo di integrazione nei confini sociali, sia collettivi che personali (Bourdieu, Castel, Chamboredon 1965).

La produzione delle fotografie può anche aiutare nella comprensione di come le famiglie traducono e interpretano gli aspetti significativi della loro vita in forme visive, e di come si pongono di fronte a tali tracce in una prospettiva di continuità temporale. Nelle immagini si possono rendere connessioni e simboli di reciproco senso di appartenenza. Lidia, sorridendo a suo papà Mauro, sfoglia l’album e lo appoggia sul tavolo. Mi mostra una foto scattata durante le vacanze al mare. Lidia aveva cinque anni, mi raccontano ridendo, e nella foto indossa un vestitino elegante. É a cavalcioni di una moto giocattolo, una Ducati rossa, e sorride con lo sguardo rivolto verso la macchina fotografica. Paola, Mauro e Lidia iniziano a ridere insieme, mentre Paola mi spiega che quel modello è la moto preferita di Mauro. Il papà sorride soddisfatto e Lidia aggiunge che non era salita sulla moto per utilizzare il gioco ma, sotto espressa richiesta del papà, per poter scattare quella foto. La loro attenzione rimane su questa immagine per svariati minuti, mentre i loro affettuosi commenti divertiti sulla bimba vestita in maniera elegante a cavallo della moto rivelano la ragione che rende tale foto così significativa per loro. L’importanza di questo scatto risiede proprio nell’occhio di chi ha costruito, scelto e scattato la fotografia. La scelta estetica di Mauro è stata quella di coniugare in una sola immagine quelle che definisce come le sue due passioni più grandi, sua figlia e la moto, caricandola di valore sia in termini di mezzo comunicativo che di affermazione della relazione familiare. Per Paola, Lidia e Mauro alcune immagini ricoprono un ruolo complementare alla parola, soddisfacendo il bisogno di continuità e inserimento sociale, e fornendo nel contempo stimoli per vedersi e ricordarsi uniti nelle attività svolte insieme (la vacanza, il pattinaggio, il primo animale domestico). In questo caso, gli album forniscono preziose indicazioni rispetto alla performatività della memoria in quanto, affiancati ai racconti, mostrano i percorsi di cambiamento, adattamento e integrazione attraversati dalla famiglia nella vita reale (Sontag 1977).

Fotografare significa anche cogliere istanti, bloccare sensazioni nel tempo, essere padroni dei ricordi. Francesco mi mostra le sue fotografie sul computer. Il resto della famiglia lo chiama il “fotografo ufficiale”. I suoi soggetti preferiti sono i fratelli, che vengono rappresentati nelle gite organizzate, nelle attività sportive, nei momenti a casa, nella fotografia scattata ogni anno in vacanza. Li coglie nei momenti di intimità e di gioco, con un occhio attento alle relazioni sociali tra pari. Francesco e i suoi fratelli sono consanguinei, e sono stati adottati insieme. Le fotografie che sceglie di mostrarmi li rappresentano assieme e confermano il nucleo familiare a partire dalla ripetizione della quotidianità e del regolare scandirsi del tempo (Phoenix, Brannen 2014). Mi mostra una serie di foto dove c’è contatto fisico tra loro, un abbracciarsi e cercarsi. Sono i genitori che, fra le parole e la visione delle fotografie, mi raccontano della continuità che percepiscono fra il suo essere stato un fratello molto protettivo con la necessità di tenere tutto sotto controllo e lo sviluppo della passione fotografica mirata, in particolare, a rappresentare i membri della famiglia e i suoi amici e momenti più intimi. «Una volta lui raccontava, solo lui senza lasciar raccontare ai fratelli»[11]– dicono.

Quando le fotografie appartengono ai soggetti rappresentati in esse e divengono familiari e condivise, la relazione fra queste e il percorso di costruzione di affetti e legami di parentela cambia. L’immagine nella narrazione collettiva prende vita e come un contenitore di ricordi percettivi permette di ritrovare la memoria di suoni, gusti, colori e incontri. Tali peculiarità cambieranno, si modificheranno ancora e prenderanno forma a seconda di chi e quando guarderà le foto e della ragione per cui sono state scattate.

Come un efficace strumento per capire e pensare i paradossi e le incongruità della vita quotidiana, le immagini di Francesco esprimono la “verità” della memoria sociale, limitando gli ostacoli e le difficoltà in un tempo passato senza prendere le distanze da un presente complesso e in costante trasformazione e divenire.

Il primo periodo trascorso insieme è un tempo di indefinitezza, in cui le famiglie adottive sono legalmente definite e riconosciute, ma dove i membri al loro interno non si conoscono e riconoscono l’uno nell’altro. A partire da tale momento, il potere performativo della fotografia inizia a svolgere una funzione di conferma, ovvero che prima di tutto e nonostante tutto, i membri di quel nucleo familiare sono insieme e sono famiglia. L’immagine gioca quindi un doppio ruolo, non limitandosi a mostrare la famiglia nella sua interezza all’esterno, ma rinforzando il nucleo della nuova parentela attraverso la costituzione di memorie condivise che definiscano con certezza la materia e forza di cui tale relazione è costituita, in quanto «le famiglie necessitano di essere ‘mostrate’ tanto quanto di essere ‘fatte’»[12] (Finch 2007: 66).

La scelta estetica della fotografia, cosa rappresentarvi e che emozioni e significati leggervi copre una posizione importante in questo meccanismo, così come le reazioni di fronte alla macchina fotografica. Alcuni vi ritrovano la possibilità di allentare tensioni, altri al contrario si pongono in posizione difensiva e sollevano barriere protettive. Le espressioni che si propongono al fotografo spesso differiscono da quelle che si utilizzano nel quotidiano, confermando la posizione di Marianne Hirsch (1997) nel ritenere che le foto di famiglia siano degli artifici, prodotte ed esposte rispettando convenzioni sociali che si rafforzano e riconfermano nella produzione di nuove immagini conformi a tale sguardo (Bouquet 2001).

Anche come esse vengono condivise, fatte scorrere rapidamente o osservate con attenzione, può influire in questo senso e dire molto di chi le sta mostrando, a seconda dello spazio e dell’audience cui vengono esposte (Hirsch 1997). I significati possono così ancora mutare a seconda di chi guarda tali immagini, a seconda delle ragioni per cui sono state scattate: lo sguardo teso e triste di una madre nel suo primo incontro con la figlia, il solletico attento di un padre sui fianchi del suo bambino. Le fotografie si rivelano una potente forma di linguaggio, capace di confortare o ferire, divertire o spaventare, disgustare o attrarre, un filo del racconto guidato dalle emozioni che segnano il percorso insieme (Barthes 1980). In esse è possibile cogliere messaggi che le parole non possono trasmettere. Come un padre e un figlio completamente ricoperti di argilla, che possono rivendicare nel gioco una somiglianza somatica. O una figlia che mostra lungamente la prima foto scattatale dai genitori, con i capelli rasati (d’obbligo in alcuni istituti per ragioni igienico-sanitarie), per richiamare l’attenzione sui suoi capelli d’oggi, curati e legati come lei li voleva allora. Ancora una volta, fra il ricordo del passato e la consapevolezza dell'odierno, la fotografia esprime e sancisce la verità del ricordo sociale, e diventa luogo dove definire e ordinare la realtà (Chalfen 1987). In questa condizione di continuo mutamento, la fotografia svolge la funzione familiare di confermare che, innanzitutto e nonostante tutto, si è insieme, si è famiglia.

Il significato delle fotografie è tuttavia soggettivo, e rappresenta il modo di pensarsi di una persona in relazione alle altre. Nel caso delle famiglie nate da adozione internazionale, il supporto fotografico è spesso carico di senso, portando con forza l’attenzione verso le criticità di una relazione nata nel tempo e dalla vicinanza di soggetti con esperienze e vissuti che possono anche essere profondamente differenti. In questo senso, sono in particolare le immagini di prossimità fisica le più potenti, testimoni di una vicinanza e continuità relazionale che ogni giorno salda e rafforza le relazioni, e nel contempo di una differenza somatica irriducibile, anch’essa viva ed esorcizzata nella quotidianità. Sono queste immagini che tradiscono e rivelano percorsi e intenzioni, che trasmettono la forza di una relazione complessa e in perenne contrattazione. Le mani sfiorano per proteggere o stringono per contenere, gli sguardi si incrociano, le vicinanze dei corpi rivelano la confidenza al contatto, le figure di riferimento, quando la comunicazione fisica subentra a quella verbale. Le fotografie attenuano e rimarcano un passato, riflettono un presente, interrogano un futuro.

Nelle immagini scattate da soggetti esterni, professionisti, dei significati inevitabilmente si perdono: resta la fotografia da osservare, percorrere e “leggere” senza direzioni prestabilite, alla ricerca del proprio concetto di “famiglia”.

Conclusioni

A partire dalla seconda guerra mondiale in poi, l’adozione è stata re/immaginata e ri/prodotta come una transazione dal potere trasformativo, capace nella sua accezione internazionale di rimarcare ancor più la sua caratteristica del rendere parenti biological strangers (Herman 2002), e nel contempo utilizzata dalle politiche egemoni come strumento di controllo e/o protezione della risorsa infantile (Briggs-Marre 2009). L’adozione internazionale si prefigura come un dispositivo capace di scucire e cucire relazioni, intersecando fenomeni politici ed economici di portata nazionale e mondiale con le pratiche intime e quotidiane della sfera familiare. L’obiettivo di guardare a queste dinamiche relazionali attraverso uno sguardo antropologico è di incorporare un’attenzione alle relazioni umane nella loro dimensione contrattuale, negoziata e performativa all’interno di una cornice orientata al percorso in divenire della parentalità. In un insieme di cerchi concentrici che si appartengono e completano a vicenda, la categoria dell’essere famiglia viene interrogata e interpretata come costruita e riconosciuta, una sorta di “arena” all’interno della quale i diversi soggetti portano le loro esperienze. I processi adottivi, inseriti nella più ampia categoria della circolazione infantile, ci permettono di “frantumare” il costrutto sociale della famiglia, rivelandone le sfaccettature.

Nel riflettere sulla co-costruzione del rapporto familiare nel fenomeno adottivo e approfondire le pratiche quotidiane che tengono unita la famiglia nelle reciproche differenze, i soggetti che hanno preso parte alla ricerca mi hanno permesso di accedere al loro uso dello strumento fotografico: un mezzo attraverso il quale nutrire il legame parentale, riconoscersi come gruppo familiare, osservare le vicinanze e rafforzare la prossimità. Le immagini diventano partecipi di un processo di concretizzazione, svolgendo il mandato sociale di abituare lo sguardo con cui la famiglia guarda a se stessa nelle sue dinamiche private. Inoltre, la fotografia si rivela fondamentale nel rappresentarsi alla comunità nel rispetto delle convenzioni sociali. L’utilizzo dell’immagine come supporto e complemento della memoria e dei racconti ha permesso di entrare in relazione con le realtà percettive e visive del rapporto adottivo e di come queste vengono strutturate e ripensate collettivamente, in una mediazione di sistemi e schemi di percezione e di azione, all’interno del nucleo familiare.

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[1] «As a marked social practice, adoption is meaningless without some form of a biological model for kinship as reference. But it is a two-way semantic process. Adoption provides meaning to the biological, and at the same time, the “made” relationship limits the meaning of the “natural” relationship».

[2] La fotografa Mariateresa Giordana, specializzata in ritratti individuali e familiari, con la quale sono entrata in contatto in occasione del suo lavoro sui ritratti generazionali (nonne, mamme e figlie) denominato “TRACCE”.

[3] «Adoption takes place almost exclusively in one direction, from poor countries to wealthy ones, or within nations, from impoverished or otherwise vulnerable women and girls to wealthier, more secure ones» (traduzione dell’autrice).

[4] « (…) difficult terrains of memory, ethics, and politics» (traduzione dell’autrice).

[5] Aggiungendo una nota metodologica, a seguito di una riflessione a posteriori credo che tali foto non abbiano avuto l’effetto da me desiderato principalmente per tre ragioni: la prima è che erano state scattate da terzi in un momento non rappresentativo, e non da loro stessi o sotto loro richiesta. La seconda è che, per ragioni legate ai tempi della ricerca, era stato possibile stampare e portare con me agli incontri esclusivamente una fotografia per ciascuna famiglia, che quindi ha impedito di svolgere una riflessione di tipo comparativo rispetto alle diverse circostanze e pose in cui avevano chiesto di essere rappresentati al tempo dello scatto. La terza è che, al nostro ultimo incontro, le famiglie insieme alla fotografia erano interessate a ricevere un riscontro in relazione alle esperienze che le altre famiglie avevano condiviso con me. Lo svolgimento dell’ultimo incontro veniva infatti percepito come un momento di conclusione del lavoro, a seguito di altri molto attivi nel corso dei quali erano stati condivisi intensi momenti di intimità e fragilità. La sensazione, nel corso di questo ultimo momento, era che a quel punto della ricerca si fosse raggiunto un livello di saturazione delle informazioni condivise, che tutto fosse già stato detto.

[6] Intervista svolta nel settembre 2013.

[7] Intervista svoltasi nel settembre 2013.

[8] Intervista svoltasi nel settembre 2013.

[9] Intervista svoltasi nel luglio 2013.

[10] Intervista svoltasi nel luglio 2013.

[11] Intervista svoltasi nel luglio 2013.

[12] «Families need to be ‘displayed’ as well as ‘done’ [traduzione dell’autrice]. By ‘displaying’ I mean to emphasize the fundamentally social nature of family practices, where the meaning of one’s actions has to be both conveyed to and understood by relevant others if those actions are to be effective as constituting ‘family’ practices» (Finch 2007: 66).