I bambini dell’Altro

Adozioni internazionali tra il Burkina Faso e l’Italia

Martina Concetti

Agenzia Regionale Adozioni Internazionali, Regione Piemonte

Table of Contents

Campi in attraversamento
Motivazioni dell’abbandono
Diventare famiglia: la creazione di una storia comune
Assomigliarsi
Bibliografia

Abstract. International adoption, because of its very nature, must be considered from multiple spatial perspectives. In this work two areas were taken into account: Burkina Faso and Italy. The study focuses on the relational and emotional dynamics interrelated with the Italian parents, the Burkinabé children and their crossing of the two territories. The analysis of the dossiers of the children adopted through ARAI-Regione Piemonte shows that the main causes of abandonment could be traced: incest, alleged mental illness of the mother and found children. These are the children’s stories that will then be integrated by the adoptive parents in their personal family history. Structuring itself day after day and reconstructing its daily routine, the adoptive family manages to become familiar with itself and to recognize itself as such.

Keywords: Intercountry adoption; Burkina Faso; abandonment motivations; adoptive parenting.

L’adozione internazionale coinvolge per sua natura molteplici terreni attraversando i quali si formano nuovi legami di parentela, in questo articolo ne verranno presi in considerazione due: l’Italia e il Burkina Faso. Finalità è quella di indagare le prassi e le strategie che legano questi due luoghi nella formazione di una nuova famiglia. Il lavoro di ricerca che vi è alla base ha preso corpo negli uffici dell’Agenzia Regionale Adozioni Internazionali della Regione Piemonte durante l’arco di un anno, dall’agosto 2015 al luglio 2016, con un periodo di studio effettuato in Burkina Faso, interrotto a causa del colpo di Stato di settembre 2016. Nel corso della ricerca sono state indagate le differenti fasi del percorso adottivo utilizzando metodi specifici. In un primo momento è stata affrontata l’analisi delle motivazioni dell’abbandono dei bambini burkinabé a partire dallo studio della composizione dei dossier, in secondo luogo sono state contattate le famiglie. Il primo incontro è stato facilitato dalla partecipazione alla formazione specifica organizzata dall’Ente. In seguito venti coppie che avevano già adottato o stavano adottando in Burkina Faso con ARAI sono state coinvolte in sessioni d’interviste nelle quali si sono indagati i processi e le strategie di imparentamento.

La pratica adottiva mette in relazione soggetti estranei, altri, in un percorso, regolato da precisi protocolli burocratici, che li renderà genitori e figli. Il carattere costruito di questa forma di apparentamento conserva una forte dimensione di non detto, di taciuto, nel tentativo di evitare di porre in eccessiva evidenza la sua irriducibile differenza con la filiazione in termini biologici. L’intima ambizione di ogni famiglia adottiva è infatti quella di normalizzarsi, di nascondere la sua natura artificiale. L’appartenersi e l’assomigliarsi, con i quali si rappresentano le famiglie biologiche, devono essere prodotti attraverso delle strategie in quanto non risultando immediatamente identificabili. Su tali concetti si è interrogato Pier Giorgio Solinas, individuando nel vocabolario della famiglia, che si esprime in termini di appartenenza, «un’insopprimibile capacità di indicare legami, rapporti di co-sustanzialità. Legami che trascendono l’evidenza sensibile, configurano un tipo di unione carnale, emotiva e sociale che sfida la logica della normale relazione» (Solinas 2010: 58). Sono le pratiche condivise, i sentimenti, le abitudini a renderci parte di un nucleo familiare, ma con un ineludibile elemento di somiglianza, di continuità “genetica”. Il bambino, il figlio, è costrutto sociale nel quale si rintracciano elementi provenienti dai diversi membri ascendenti della famiglia che in lui si ritrovano uniti. Questi elementi nell’adozione si perdono e vanno sviluppate nuove tecniche che rendano familiare l’estraneo. Remotti, citando Fortes, parla di filiazione in termini di “riconoscimento giuridico” che stabilisce la relazione tra genitori e figli (Fortes cit. in Remotti 2013: 80). Il farsi parenti è pertanto dettato da ciò che ci istituisce come tali. «Figli non si nasce, ma si diventa, […] oltre al processo biologico di gestazione, c’è un processo di gestazione sociale e persino giuridica: un figlio è un vero e proprio “costrutto” sociale. La filiazione consiste dunque nelle operazioni sociali in cui si concretizza il processo di riconoscimento del “figlio”, ovvero di un “soggetto” a cui fanno capo diritti e doveri» (Remotti 2013: 80). La filiazione in termini adottivi riguarda proprio questo secondo aspetto, la fase di gestazione, di “attesa” del figlio desiderato, è qui scandita da procedure burocratiche, dalla preparazione del contesto domestico e sociale necessario all’accoglienza del nuovo membro del nucleo familiare.

Il forte desiderio di genitorialità è ciò che pone le coppie che intraprendono il percorso adottivo nella condizione di sottoporsi ad analisi e valutazioni da parte di professionisti del sociale e di giudici, i quali hanno il compito di stabilire le loro reali capacità di accoglienza. Tale giudizio, se espresso positivamente, rappresenta per i coniugi una fonte di riconoscimento di legittimità sociale che assume quasi una valenza di rivendicazione del proprio essere adeguati al ruolo genitoriale. Il diventare famiglia attraverso l’adozione si configura allora come un processo di formazione tramite la quale acquisire gli strumenti necessari ad accettare il figlio dell’Altro in modo che diventi figlio “nostro”.

Campi in attraversamento

Il lavoro qui esposto si propone di indagare le dinamiche relazionali e affettive, che legano genitori italiani e figli burkinabé nell’attraversamento dei due territori al fine di creare un nuovo nucleo familiare. L’adozione prende la forma di una pratica che instaura un rapporto di parentela dove non esiste alcun legame biologico; per questo, essa richiede delle strategie. Genitori e figli elaborano una loro storia, che parli dell’incontro “predestinato” che li ha portati ad essere tali. Costruiscono, tramite i racconti, dei legami simbolici e una vita comune. Primario è il bisogno di rendersi simili grazie all’applicazione di una routine, di un vocabolario, all’imitazione di gesti quotidiani. È una pratica di continuo e reciproco riconoscimento nel tentativo di superare, o meglio di arrivare ad ignorare, le differenze del corpo. «Delle volte non mi accorgo neanche più che mio figlio è nero»[1]. Il bambino burkinabé e i suoi genitori (bianchi) cercheranno di elaborare delle risposte per rendere conto di questa diversità, finanche a eliminarla dal loro orizzonte. Questo perché è necessario riuscire a rendere la famiglia adottiva il più simile possibile alla famiglia naturale, in quanto «l’importante non è nascere parenti ma diventarlo, comportandosi come tali» (Fine 1998: 2).

Adottare il figlio dell’altro, del completamente diverso da me, comporta anche l’accettazione, all’interno del proprio nucleo familiare, dell’altrove. Il Burkina Faso è una presenza costante nelle case delle famiglie intervistate: piccoli oggetti, libri, foto e video, burro di karité da spalmare sul corpo dei figli per evitare che la pelle, non abituata alle temperature italiane, si secchi. A volte il contatto con il paese d’origine dei bambini si perpetua con lettere e rimesse alle famiglie affidatarie o agli orfanotrofi che li avevano in carico. Quella della genitorialità adottiva è un’esperienza fatta di traiettorie biografiche in continua elaborazione. Il Burkina resta nelle vite delle famiglie e diventa oggetto di ricordi e domande sulle proprie origini.

Permane uno spazio di connessione tra i due luoghi anche nell’elaborazione familiare delle traiettorie biografiche dei bambini e delle storie loro connesse. Spetta ai genitori adottivi il compito di integrare la storia pregressa del figlio, quella che emerge dai documenti consegnati loro nel momento dell’abbinamento e nei quali vengono descritte le modalità del suo abbandono, nella storia della famiglia. Tali informazioni emergono dall’inchiesta sociale (enquête sociale), parte centrale del dossier adottivo del minore, consegnato dall’Ente ai genitori nel momento della comunicazione dell’abbinamento. Il documento è composto di poche pagine nelle quali viene descritta la storia antecedente all’adozione del bambino. La redazione dell’inchiesta è affidata agli operatori sociali burkinabé, i quali svolgono un'indagine al fine di rintracciare, dove possibile, le motivazioni dell’abbandono del minore. Vengono ricostruite le traiettorie di vita dei bambini prima e dopo l’inserimento negli istituti o nelle famiglie affidatarie, di cui i genitori adottivi dovranno farsi portatori. La struttura delle inchieste è fissata da un protocollo che prevede la compilazione di campi ben definiti. Il rischio di questa procedura è quello di omologare vicende completamente diverse in pochi e ripetitivi schemi ma, allo stesso tempo, garantisce la presenza minima di alcune informazioni per tutti i minori. Ciò dovrebbe aiutare la commissione inter-parlamentare del Burkina Faso, a cui vengono consegnati i dossier dei minori in stato di abbandono e quelli delle coppie disposte all’adozione, a valutare gli abbinamenti. Tale commissione è composta dai diversi rappresentanti delle istituzioni coinvolte nel processo adottivo: il Ministro dell’Azione sociale, il direttore della Protezione dell’infanzia, il direttore delle adozioni, il presidente dell’Unione nazionale dei centri di accoglienza dei minori in difficoltà (come rappresentante dei CAED, Centre d’Accueil des Enfants en Détresse), la direttrice dell’Istituto di Guié (in quanto rappresentante dell’Istituto più grande del Burkina), un funzionario del settore “Adozioni” e alcune figure professionali come uno psicologo, un giudice e un medico. La valutazione degli abbinamenti avviene tramite la disamina delle cartelle di adottanti e adottati, ma non sono stabiliti dei veri criteri sulla base dei quali questi debbano essere effettuati. Viene chiamata in causa «l’esperta applicazione del sapere disciplinare» (Di Silvio 2015: 2) di cui i rappresentanti ministeriali si fanno portatori. La creazione della famiglia adottiva vede il suo realizzarsi in questo momento e qui rivela anche il suo paradosso originario «l’apparente naturalità del farsi parenti si istituisce di fatto come il risultato di specifiche pratiche di ingegneria sociale» (Di Silvio 2015: 15).

Nonostante tale natura costruita e minuziosamente governata da pratiche burocratiche ed esperti, all’atto dell’abbinamento viene conferita una notevole componente di predestinazione. «Doveva andare così, dovevamo passare tutto questo per avere lui»[2] questo è un esempio dei discorsi costruiti intorno al momento dell’incontro. Nella pratica discorsiva della parentela l’enfasi posta su tale momento è accresciuta ulteriormente dalla fantasia, non comprovata, che gli operatori sociali o gli amministratori locali spendano molto tempo e sforzi nel cercare di far corrispondere i genitori con un bambino in particolare. Viene così rimossa ogni idea di pura casualità nell’origine della relazione. Genitori e figli sono misteriosamente destinati l’uno all’altro e allo stesso tempo la selezione viene descritta come il risultato di una scelta deliberata, avvalorata dall’applicazione del sapere degli “esperti” (Howell, Marre 2006: 307). L’idea di predestinazione implica che il bambino sia nato «with relationships that were waiting for somebody who could find them and give them a social acknowledgement» (Marre, Bestard 2009: 73). L’idealizzazione di “un bambino che a noi era destinato” è un'immagine ricorrente nelle interviste che ho svolto con le famiglie adottive. La notifica dell’abbinamento segna il momento di transizione che trasforma la coppia in famiglia. Rappresenta un evento cardine nel percorso adottivo. La coppia viene convocata dall’Ente e in presenza dell’assistente sociale e dello psicologo, viene letta l’inchiesta sociale e vengono mostrate le foto allegate al fascicolo. Per la prima volta i genitori adottivi ascoltano la storia del bambino loro proposto dalla commissione burkinabé. Gli operatori dell’Ente consigliano alle coppie di aspettare qualche giorno prima di confermare la loro disponibilità in modo da misurarsi meglio con il contenuto dei documenti e con i dati delle analisi mediche presenti nel dossier. Tale tempo risulta necessario per considerare l’accettazione della storia del bambino e di sue eventuali patologie e confrontarle con le loro aspettative genitoriali.

Motivazioni dell’abbandono

Durante il periodo di ricerca ho affrontato la lettura di settanta dossier di bambini adottati dal Burkina con ARAI-Regione Piemonte. Le cartelle studiate sono quelle delle adozioni effettuate dal 2007, anno d’inizio dei rapporti tra ARAI e il Burkina Faso, al 2015. All’interno degli incartamenti vengono descritti gli eventi che hanno portato all’abbandono o all’allontanamento del minore. Due sono le maggiori cause rilevate dalla lettura delle inchieste: l’incesto e la malattia mentale della madri. Vi è poi una rilevante incidenza di casi di bambini trovati in luoghi pubblici di cui non si conoscono con certezza le cause dell’abbandono. Nelle cartelle studiate, le storie, anche molto diverse tra loro, potevano tutte essere ricondotte ad una di queste tre categorie.

L’incesto è risultato essere una delle più frequenti motivazioni di abbandono. Delle settanta storie analizzate attraverso le inchieste sociali, ventitré sono i casi di abbandono a causa dell’incestuosità del rapporto, mentre in altre sette cartelle il bambino viene definito figlio illegittimo. Queste gravidanze vengono rifiutate dal nucleo familiare a causa dell’infrazione delle norme che regolano la riproduzione sociale, la conseguenza di ciò è la non accettazione del minore all’interno della coorte/famiglia[3] e l’espulsione dei suoi genitori. I dossier nei quali il bambino viene identificato come figlio illegittimo descrivono casi di paternità incerta o di gravidanze conseguenti ad una violenza. Tali situazioni rendono altrettanto incerto il futuro del minore in quanto è la famiglia del padre che sarebbe tenuta ad occuparsi della sua crescita. Nelle inchieste, questi casi sono assimilati a quelli di incesto, seppure l’utilizzo di questo termine risulti improprio. In quattro fascicoli si specifica che l’inserimento del minore nel contesto adottivo è dovuto al decesso della madre a seguito del parto, mentre soltanto in uno l’impossibilità economica di mantenere il figlio è considerata la causa dell’abbandono. Quindici sono le cartelle nelle quali come motivazione dell’allontanamento è identificata la malattia mentale della madre, in alcuni di questi dossier sono allegate delle diagnosi mediche delle madri. I restanti venti sono casi di minori abbandonati in luoghi pubblici, in città o villaggi, e trovati da passanti o operatori sociali.

Per quanto concerne i casi di abbandono dovuto a filiazioni di tipo incestuoso o illegittimo, l’utilizzo da parte degli operatori sociali di tali termini va inserito nel contesto nel quale sono prodotti e in esso studiati. Partendo dalle cartelle mi è stato possibile analizzare alcune storie dalle quali emergevano degli esempi delle norme sociali infrante e delle conseguenze sulla vita dei figli e dei genitori, come in quella di Isidor:

Isidor[4] n’est ni un enfant abandonné, ni un orphelin, mais plutôt un enfant incestueux. Le fait de ne pas l’accepter au village est dû au lien de parenté unissant ses deux géniteurs, et le qualifie d’un enfant issue d’une relation incestueuse. Pour la famille, un tel bébé représente une malédiction, et aucune personne ne souhaiterait sa vie [...]. Ses géniteurs sont considérés maudits et bannis de la famille[5].

Qui, come in altri dossier, gli operatori tendono a sottolineare come sia una “raison de coutume” quella che spinge queste famiglie a non accettare il bambino nel proprio nucleo. Gli stessi genitori sono banditi fino al momento del parto. L’abbandono del figlio, prova inequivocabile del loro errore e della trasgressione delle regole sociali, è l’atto imprescindibile che consente loro il rientro nella coorte familiare.

Les père et mère de Jasmine n’ont pas intégré la notion de limite. Le père a des contacts épisodiques avec le village et méconnaît les valeurs du village. Ils n’ont pas mesuré la portée de leur acte. Mais monsieur B. voit dans cet acte le mauvais sort. Ce qui semble également confirmé par les membres de la famille. Car dans le passé un membre de la famille s’était donné la mort pour le même cas. Toute cette histoire confère au père et mère de l’enfant un vécu psychologique “douloureux”[6].

Dai testi degli operatori emerge il pesante giudizio sociale che colpisce chi contravviene consapevolmente la norma. A tale comportamento segue una sanzione che deve essere ripagata, pena il disonore stesso dell’intero gruppo. La responsabilità di tale trasgressione viene fatta ricadere sulle spalle dei due genitori, ma anche sul bambino in quanto figlio dell’atto incestuoso.

Nelle inchieste sociali gli operatori cercano di mostrare le difficoltà con le quali il minore dovrebbe confrontarsi se rimanesse nella sua famiglia di origine. Parte del loro compito riguarda l’esplicazione delle regole che governano i contesti di provenienza in modo che siano di facile comprensione anche da parte dell’Altro, le famiglie adottive. A tal fine le norme sociali vengono, nel linguaggio degli incartamenti burocratici, ridotte ai loro aspetti più semplici. Inoltre, come possiamo osservare dall’ultimo esempio, in alcune inchieste viene proposto un linguaggio che si appella ad una terminologia scientifica, in particolar modo a concetti derivanti da discipline psico-sociali. Così leggiamo di vissuti psicologici dolorosi dei genitori o di rigetto psicologico del bambino da parte della madre e del padre. Questa terminologia non parla al consiglio ministeriale che deciderà gli abbinamenti e neanche ai responsabili dei CAED, ma piuttosto agli psicologi e agli assistenti sociali dei paesi di accoglienza oltre ai futuri genitori adottivi.

Necessario è dunque interrogarsi sulle terminologie utilizzate, sui soggetti parlanti, sui loro fini e possibili fraintendimenti. La stessa parola incesto nella prospettiva utilizzata dagli operatori assume per le aspiranti famiglie adottive un’accezione differente rispetto al senso che le è conferito nel suo contesto di origine. Il primo confronto con tale concetto avviene durante la formazione specifica proposta dagli Enti, nella quale vengono forniti gli strumenti base per decifrare il significato del termine nel contesto burkinabé. Resta una tematica complessa da affrontare per alcune coppie. Il termine incesto evoca loro scenari preoccupanti di malattie genetiche, ereditarie, rare, recidive o porta alla mente immagini di riprovevoli rapporti tra consanguinei. Nelle inchieste sociali il suo significato deve piuttosto essere messo in rapporto con un’altra semantica, con il modo in cui il valore della parola è stato costruito socialmente nel contesto che gli operatori stanno descrivendo. Le famiglie adottive devono rapportarsi con una diversa concezione di famiglia e considerare un diverso modo di intendere il tabù che limita le unioni tra consanguinei.

È necessario comprendere, attraverso l’attenta lettura dei dossier, cosa intendono gli operatori sociali burkinabé quando definiscono incestuoso un rapporto e in tal modo fornire profondità al discorso evitando di appiattirlo a categorie riconducibili al nostro contesto. Va indagata dunque la definizione del gruppo familiare mossi, etnia maggioritaria del Burkina Faso, e le sue regole di riproduzione biologica e sociale. La decisione di concentrarsi su questa specifica etnia deriva dal fatto che dei ventitré casi di abbandono per motivi di incesto, riscontrati tra i bambini adottati dal Burkina Faso con ARAI-Regione Piemonte, venti sono di etnia mossi. Di questi in diciotto dossier è specificato il grado di parentela che intercorre tra i due genitori biologici, i quali sono o cugini germani [7]o appartenenti alla stessa famiglia allargata, mentre un unico caso è riconducibile ad un incesto tra consanguinei di primo grado. Rispetto ai restanti casi il termine incesto viene allargato a comprendere anche il rapporto tra una moglie e uno dei componenti della famiglia del marito.

Durante la mia permanenza in Burkina, gli operatori di uno dei CAED che ho avuto modo di intervistare mi hanno spesso parlato dell’ipertradizionalismo mossi, il quale veniva considerato la prima causa di abbandono. Secondo quanto da loro riferitomi tuttora tra i mossi le regole di scambio matrimoniale restano molto ferree e la trasgressione comporta l’esclusione dal nucleo familiare. Questo si verifica quando relazioni, considerate illecite, vengono scoperte a seguito di una gravidanza sulla quale si avanzano dei dubbi di riconoscimento. La regola sociale a cui fanno riferimento nelle inchieste prevede che vengano allontanati dalla coorte familiare sia l’uomo che la donna trasgressori di tale interdetto. Da un’analisi delle storie emerge però come tale regola venga applicata maggiormente nei confronti delle donne, per le quali il completo isolamento sociale comporta inoltre maggiori difficoltà nell'autosussistenza.

Avec le temps, la grossesse se confirme et la famille finit par bannir S. (madre del bambino) comme le veut la tradition. Elle se retrouvera chez une tante et accouchera d’un garçon […]. Se débarrasse de lui à permis d’être pardonnée et de réintégrer sa famille paternelle. Mais P. (padre del bambino), lui, n’a pas été enquêté[8].

Bisogna dunque fare brevemente chiarezza sulle regole di scambio matrimoniale mossi per cogliere con maggiore profondità gli elementi presenti nei dossier. Quella mossi è un’etnia a discendenza patrilineare, nella quale lo scambio delle donne avviene tra gruppi lignatici differenti. Tramite questi matrimoni si costruiscono e rafforzano nuove alleanze. Se tali alleanze vengono rotte perché la donna promessa al gruppo familiare fugge o resta incinta fuori dal matrimonio precedentemente accordato è necessario trovare una “sostituta” per evitare di perdere rispetto ed autorità (Bonnet 1988a: 37). Proprio per salvaguardare il valore sociale del matrimonio, considerato non esclusivamente sotto il punto di vista della ricchezza della riproduzione sociale, ma anche dei rapporti di alleanza tra i diversi lignaggi, forte è lo stigma che colpisce le donne che concepiscono un bambino dopo un rapporto incestuoso. Una volta scoperta la gravidanza, vengono immediatamente allontanate dal nucleo familiare nel quale non potranno far ritorno se non successivamente al parto ed esclusivamente se decidono di abbandonare il figlio. Il neonato è infatti considerato portatore di sventura e, nel caso dovesse crescere nella coorte del padre della donna, potrebbe portare alla disgregazione della famiglia, finanche alla morte del suo membro più autorevole (viene a volte fatto riferimento a problemi di successione e di eredità che potrebbero successivamente insorgere a causa della presenza di un membro non riconosciuto all’interno della comunità/famiglia).

Questa è una parte della complessità che si cela dietro una terminologia che per essere funzionale in un sistema internazionale come quello delle adozioni internazionali deve rispondere a precisi canoni di traducibilità e universalità presunta di alcuni concetti. Una parte del compito di epurazione del linguaggio, finalizzato a consentire una più facile comprensione delle storie dei bambini, viene delegata agli operatori sociali burkinabé. Una semplificazione necessaria al sistema adottivo ma alla quale si dovrebbe cercare di ridonare la sua originaria profondità.

L’intestazione che si legge in altre cartelle di bambini burkinabé inseriti nel contesto dell’adozione è “m. m. m.”. Il significato dell’acronimo lo si scopre all’interno delle inchieste sociali, queste parlano di mères malades mentales che vivono senza fissa dimora nelle campagne o nelle periferie cittadine con i propri figli. Come è emerso da alcune interviste che ho effettuato in Burkina, sono gli operatori stessi ad utilizzare tale definizione riferendosi a donne che vivono una specifica condizione di emarginazione: donne sole, con i propri figli, che vivono in strada. In alcuni casi i bambini sono condotti negli istituti dalle famiglie delle madri che le considerano malate e per questo incapaci di occuparsene. In altre situazioni descritte nei fascicoli sono stati i servizi o la polizia ad intervenire ed allontanare il minore a seguito di segnalazioni.

Più che di abbandono queste cartelle descrivono casi di allontanamento. Dall’inchiesta effettuata in Burkina e, in particolar modo, dal confronto con una operatrice è emerso che queste donne in situazioni di fragilità, per le quali in alcuni casi si hanno anche delle vere e proprie diagnosi, non sono seguite da alcun servizio ne vi è per loro la possibilità di mantenere un contatto con i propri figli. In seguito all’allontanamento del bambino, delle madri non si sa più nulla. Alcune tornano a vivere per le strade della città o nelle periferie, altre vengono indirizzate verso specifici centri nei quali sono accolte donne emarginate come anche anziane accusate di stregoneria. Difficilmente venivano condotte in strutture ospedaliere specializzate. Pochi sono i centri psichiatrici realmente in funzione in Burkina (nel 2001 ne venivano censiti ventidue in tutto il paese, con soli sette medici psichiatri[9]) e le cure costose. Non vengono, dunque, chiamati in causa medici né specialisti per confermare le patologie delle madri descritte nelle inchieste sociali e in seguito non c'è modo di verificare le informazioni fornite dagli operatori, dato che delle madri dei bambini si perdono le tracce.

Fatima, ce prénom a été donné par un travailleur social, est née dans la rue. Sa mère répond au nom de A.; celle-ci ne jouit pas de toutes ces facultés mentales, malgré le fait qu’aucune analyse médicale ou psychiatrique n’a pas été faite sur elle. Elle est connue à Diapaga sous le nom de A. et aurait eu domicile à Diapaga il y a très longtemps. Elle parle presque toutes les langues (mooré, dioula, yaana…) et même des langues étrangères telles le baoulé et d’autres langues qu’on retrouve en Côte d’Ivoire. Nos investigations jusqu’à présent n’ont pas permis de trouver son attache familiale[10].

Qual è allora il significato di queste parole inserite nelle inchieste sociali? Si può parlare di malattia senza una diagnosi effettuata da un medico specializzato? E quando ve ne sono, in quale contesto e per quale fine sono utilizzate tali diagnosi? Quello che può risultare anomalo è la facilità con cui termini come malattia mentale vengono attribuiti da operatori sociali senza alcuna formazione medica.

La modalità di presa in carico del minore abbandonato viene descritta nel Manuel de prise en charge des enfants privés de famille redatto dal Ministero dell’Azione sociale nel 2014. Nessuna misura a cautela della genitorialità materna è prevista. Le madri sono prese in considerazione esclusivamente per la raccolta d’informazioni sulla storia bambino, quando sono in grado di fornirle (il fatto di non esserlo viene considerato esso stesso un dato, una prova della malattia che le affligge). Nel manuale si prescrive che l’attestato sullo stato di salute mentale della donna venga effettuato prima dell'allontanamento del bambino ma, sulla base delle cartelle lette, la norma non viene mai rispettata. Dei quindici casi riscontrati in ARAI-Regione Piemonte nei quali il motivo della presa in carico del bambino da parte dei servizi risulta essere la malattia mentale della madre, solo cinque hanno, in allegato al dossier, delle diagnosi. Anche queste stesse diagnosi sono tutte effettuate successivamente, e anche di diversi anni, rispetto alla data di compilazione dell’inchiesta sociale redatta per il bambino. Sono poi firmate, in quattro casi su cinque, da operatori della salute mentale che lavorano all’interno dei Servizi di Psichiatria di un ospedale o di un centro medico (attaché de santé) e non da medici specializzati in psichiatria. Nonostante tali diagnosi non siano effettuate da psichiatri, quattro di queste fanno esplicito riferimento a disturbi di area psicotica, e in particolare alla schizofrenia. Nello specifico si parla di “schizofrenia paranoide” o “turbe psichiatriche a carattere schizofrenico” o “crisi di tipo psichiatrico conseguenti a momenti fecondi di schizofrenia”. Questa denominazione dei disturbi sembra essere in linea con la terminologia utilizzata nella tradizione psicopatologica occidentale, e in particolare la diagnosi di “schizofrenia paranoide” è uniforme a quella del più importante manuale psichiatrico diagnostico, il DSM.

Dall’analisi di queste cartelle si comprende il fine delle diagnosi: non la presa in carico e la cura della donna, ma la legittimazione dell’inserimento del bambino nel contesto dell’adozione. Nei fascicoli gli operatori medici e sociali burkinabé utilizzano categorie mediche per giustificare l’allontanamento del bambino. Certificare la malattia della madre la rende non in grado di crescere il proprio figlio. Il linguaggio diagnostico categorizza come malate le donne e allontana i figli, di cui deve essere garantito il “superiore interesse”. Questo dovrebbe consentire al minore di avere un futuro con maggiori possibilità attraverso l’adozione da parte di famiglie italiane (in questo caso) ritenute migliori (Taliani 2012: 41).

Vi è poi la necessità di considerare il persistere in questo contesto di un’interpretazione sociale della malattia e della sofferenza che conferisce un ruolo ancora preponderante all’azione del guaritore[11]. Ma con le nuove forme del vivere e dell’abitare cittadine e il costante rapporto con uno stile di vita lontano dalla tradizione, risulta maggiormente frequente una “diabolizzazione” di queste figure, il cui potere viene desacralizzato. Il dubbio si insinua nella fiducia tradizionalmente accordata a queste figure (Ouango et al. 1998: 246). In questo contesto, in cui i pazienti sono a poco a poco sempre più scolarizzati, lo stesso guaritore inizia ad utilizzare le parole tecniche della medicina. Nella nuova visione la medicina scientifica è investita anch’essa di un potere misterioso, magico, capace di vincere gli stregoni e d’ignorare la collera degli antenati. Questo a causa della dinamica conflittuale che si instaura tra guaritore e paziente, dove il primo viene sempre più spesso ritenuto persecutore, ciarlatano e ladro.

È in questa forma di gestione dalla cura del sé, tra il contesto tradizionale e quello della medicina occidentale, che viene a delinearsi una controversa pratica di medicalizzazione di cui le donne malate mentali sono l’oggetto. Figure di madri che errano al bordo della società, colpite da un forte stigma, del quale si rintracciano le ragioni nella tradizionale percezione del mondo, ma che per essere spiegato da parte degli operatori sociali utilizza un linguaggio medico occidentale.

In alcune inchieste vengono maggiormente sottolineati i rischi che correrebbe il bambino crescendo con sua madre, tralasciando il motivo per il quale la loro esclusione sociale ha avuto luogo. Non sono presenti inchieste che lavorino nell’ordine di far reintegrare la madre e il bambino nella famiglia, o donar loro una possibilità di mantenere una forma di contatto.

Jean a été sauvé de justesse grâce à des agents. La mère, au regard de son état de santé mentale a certainement exposé l’enfant aux conditions de vie déplorables. Dans la rue au côté de sa mère, sa survie a parfois été menacée car il était confronté aux agressions naturelles et à tous les dangers. Ces dits conditions ont peu à peu affecté sa vie et contribué à la détérioration de son état de santé. Ce qui a incité les agents à appeler le numéro vert. Ce geste simple et prompt a donné une seconde chance de vie à l’enfant qui pouvait facilement mourir. La rupture du lien maternel a permis de sauver Jean et partant de là, lui permettre de vivre dans le respect de ses droits[12].

La funzionalità di questo tipo di scrittura viene qui più che altrove esplicitata: parlare all’Altro fuori dai confini semantici in cui questo discorso è costruito, all’Altro che altrove si prenderà cura del bambino. Il suo obbiettivo resta quello dell’inserimento del minore nel contesto dell’adozione, reso palese nella frasi conclusive dei dossier.

La présente enquête sociale s’est bien déroulée. Au regard des actions entreprises et pour respect des droits fondamentaux ainsi que dans son intérêt supérieur, nous souhaitons que l’enfant soit proposé en adoption plénière[13].

La funzione di traduzione di un contesto culturale in termini universali svolta dagli operatori sociali non è sempre considerata dai genitori adottivi, primi fruitori di queste cartelle. Per chi scrive è molto chiaro il viaggio che compiranno i fascicoli e quale compito dovranno svolgere: un migliore inserimento nella società di accoglienza. Sono redatti per essere decifrati in un mondo che condivide i termini del linguaggio umanitario e dei diritti umani ed è proprio a questo tipo di vocabolario che fanno riferimento. Eppure parole come “malattia mentale” e “schizofrenia” rischiano di scoraggiare alcune famiglie dall’accogliere questi bambini. Il lavoro di traduzione affidato agli operatori mostra i limiti nell’impossibilità di padroneggiare i significati che a tali parole verranno assegnati nel contesto di arrivo.

Vi sono, tra i dossier studiati, un numero consistente di casi dei quali non è stato possibile determinare la motivazione dell’abbandono data la dinamica del ritrovamento del bambino: notato da passanti, o rintracciato dalle forze di polizia da solo in luoghi pubblici. Ritrovare i genitori biologici e reperire alcune informazioni sulla sua storia risulta in tali situazione notevolmente arduo. Viene per questi casi utilizzata la categoria di enfant trouvé e nei dossier, molto scarni, sono inseriti i pochi dati a disposizione. La principale problematica è l’esiguità d’informazioni che si riescono a rintracciare sulla storia di questi minori. Spesso gli operatori ipotizzano delle motivazioni sulla base dei dati minimi che si hanno.

Inoussa est un garçon qui a été trouvé dans un lieu public (mosquée de Vendredi) qui est bien animé les heurs de prière. Sa mère a bien préparé son abandon en l’amenant à cet endroit pour être sûre qu’il aura une famille pour l’héberger. Vu sa constitution au moment de son arrivé, il serait possible que sa mère devait vivre dans des conditions difficiles et devait être rejeté par sa famille[14].

Frequenti sono le storie di bambini lasciati in luoghi pubblici affollati in modo da facilitare il loro ritrovamento e la presa in carico da parte delle istituzioni. I mercati o le chiese e gli ospedali in orari di particolare affollamento sono i posti nei quali più frequentemente vengono notati da qualche passante. In altre situazioni, seppur rare, l’abbandono avviene in spazi meno frequentati.

Questo tipo di storie non sono di facile gestione da parte delle famiglie adottive che, nel riportarle ai propri figli, applicano delle strategie che consentano di riempire dei vuoti di informazioni così consistenti. Parlando con una mamma adottiva di Tortona emergevano le pratiche da lei utilizzate per colmare le informazioni mancanti dai dossier dei due figli, adottati a distanza di anni in Burkina, entrambi bambini “trovati”. Questa madre adottiva aveva fatto appello agli operatori dei CAED dove erano stati ospitati per provare a rintracciare le persone che li avevano trovati. «A me piace raccontare quello che è per il loro futuro. Cioè che loro abbiano proprio la chiarezza. [...] Secondo me è giusto che sappiano il loro trascorso e che non abbiano paura delle loro origini e non si sentano in difetto»[15]. Per le coppie la gestione e, in seguito, la restituzione di quanto scritto o non scritto nelle inchieste sociali, è uno degli aspetti maggiormente complessi. Alcune avrebbero preferito non sapere nulla del passato del proprio bambino, altre, come quella prima citata, ricercano il maggior numero di dettagli.

Diventare famiglia: la creazione di una storia comune

In questa parte del saggio si intende riportare le parole dei genitori adottivi, chiamati ad interrogarsi sulle pratiche messe in atto per accogliere il figlio, dalla consapevolezza dei motivi dell’abbandono alla costruzione e il racconto di una storia comune. Pratiche che servono a riconoscersi come famiglia e che sono guidate dagli operatori sociali degli Enti. Dalle interviste sono emerse modalità, molto diverse, di approcciarsi alle problematiche che sorgono nei passaggi del percorso adottivo. Quando la presenza del figlio desiderato è ancora lontana, la percezione delle coppie sui profili dei bambini di diversi Paesi donatori si basa sui dati forniti dagli operatori o ascoltati dalle esperienze delle altre famiglie adottive. È anche a tali fonti che si affidano per la scelta del Paese in cui depositare i documenti per l’adozione. Questa è l’ultima scelta, dopo quella dell’Ente, su cui i futuri genitori possono intervenire direttamente nel percorso verso l’incontro con il futuro figlio, la cui proposta sarà avanzata dal Ministero del paese donatore. Le informazioni vengono maggiormente veicolate dalle altre coppie consultate o da quanto letto nei siti degli Enti. Una buona componente nella scelta si basa però sull’immaginario costruito partendo dai profili dei bambini, presentati durante i primi incontri informativi e quanto di questo viene percepito dalle coppie. Queste cercano infatti di intuire con quale paese potrebbero sviluppare maggiore affinità in modo da accogliere un figlio che possa essere il più possibile simile a loro se non nell’aspetto, almeno nel “carattere”. È sull’affinità presunta che si fonda larga parte di questa decisione, un sentimento a cui si fatica a dare una spiegazione che si basi su elementi concreti, come emerge dalle affermazioni di molte coppie interrogate.

M.: Come siete arrivati al Burkina?

S.: Io ho chiamato tutte le associazioni che facevano adozioni, un giorno che ero a casa, tutte. Sono arrivata all'ARAI che neanche conoscevo. Siamo andati ad un colloquio con le famiglie e mi è piaciuta la presentazione. Poi mi ricordo che il direttore disse che in Burkina c’era molta opportunità ma manco sapevo dove fosse il Burkina. Però, ti dico, anche che con mio marito siamo finiti in viaggio di nozze a Capo Verde, per caso perché ci siamo sposati ma poi non potevamo prendere la licenza per problemi di lavoro e ci siamo andati un paio di mesi dopo. Un last minute all’ultimo secondo e siamo finiti a Capo Verde, ti parlo di sedici anni fa quando Capo Verde non era quello di adesso, e l’Africa ci era piaciuta da morire. Poi avevamo fatto una settimana in un’isola pochissimo turistica, ai tempi era zero, e ci era piaciuta questa cosa. Quando ha detto il Burkina Faso ho cominciato a riflettere su questa cosa. Poi i paesi dell’Est no, perché io ho avuto un’associazione che faceva risanamenti di Chernobyl e abbiamo ospitato per tanti anni un bambino audioleso. Io poi sono stata tanto tempo per far mettere l’apparecchio a tutti i bambini. Però ho vissuto la Bielorussia in maniera molto negativa perché nei paesi dell’est è tutto dovuto e non c’è un attaccamento. Poi anche le famiglie che conosco che hanno adottato dai paesi dell’Est so che hanno tanti problemi per alcolismo. Quindi i paesi dell’est no. [...] Poi cosa c’erano? La Lettonia... e forse la Corea non era ancora partita. […] Proprio non mi hanno mai ispirato. Invece l’Africa, proprio il mal d’Africa ce l’abbiamo tutti, quindi ho detto Burkina, piuttosto aspettiamo, ma Burkina[16].

Il ruolo che gioca l’immaginario è dunque fondante e primario nella scelta del paese, la vicinanza o la lontananza che le coppie percepiscono da un’idea edulcorata dei luoghi di provenienza dei loro possibili bambini. Sono prospettive che si nutrono di racconti letti o ascoltati da altri, da chi ha già vissuto la stessa esperienza e per questo assurge al ruolo di esperto in materia, o dalle informazioni ricavate da ogni incontro di preparazione all’adozione a cui hanno assistito. Tutte queste concezioni si basano su «un sostrato compositivo dei sentimenti di pietà, di compassione e costernazione che impregna retoricamente il campo globale dell’adozione e le rappresentazioni degli attori coinvolti» (Di Silvio 2015: 37).

Il momento dell’abbinamento è la prima circostanza in cui incontrano la storia e l’immagine fotografica del bambino atteso. La lettura del dossier contenente l’inchiesta sociale indica la fine della preparazione e l’inizio della costruzione di una storia comune. Nel momento in cui la coppia accetta l’abbinamento si assume anche il compito di accogliere all’interno della propria storia familiare la storia di abbandono, il dolore del distacco, che caratterizza l’esperienza pregressa del figlio. Nuovo approccio questo, rispetto a quello che veniva proposto dagli Enti e dai servizi prima della Convenzione ONU sui diritti del Bambino del 1989, la quale prescrive nell’Articolo 29 che una delle finalità dell’educazione del minore sia quella di «sviluppare nel fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali del paese nel quale vive, del paese di cui può essere originario e delle civiltà diverse dalla sua». In tal senso la Convenzione de L’Aja ha assunto lo stesso principio di conservazione del patrimonio culturale di origine di cui l’adozione si fa ora promotrice. I genitori sono dunque chiamati ad interrogarsi su come trasmetterlo al meglio.

Il non saputo, quello che non è possibile capire dalle cartelle e che rappresenta l’ignoto, turba le coppie in quanto non consente loro di affrontare gli interrogativi posti dai figli.

Impari a gestire la storia che hai. Però a me sinceramente spaventerebbe [non sapere]. Io ricordo per esempio una volta con il grande che ha una cicatrice qui [indica la spalla] e quando era molto piccolo ad un certo punto mi dice «come me la sono fatta?» e io gli ho risposto «non lo so, mamma non c’era ancora» e lui mi ha risposto, avrà avuto quattro anni poco più, «ecco, tu non c’eri perciò io mi sono fatto male!». A me questa roba qua mi è rimasta impressa. Io non sono stata in grado di darti una risposta perché non avevo... Cioè l’opzione era o inventarmi una cavolata, ma non mi sembrava il caso, o dirti «non lo so, io non c’ero». E tu immediatamente mi hai fatto di questo non esserci una colpa, che in realtà è una colpa di non saperti rispondere, praticamente. È una cosa che mi dispiacerebbe dover lasciare... Già ovviamente l’abbandono ti lascia un buco, ti lascia delle domande aperte. Ma quando queste domande poi diventano proprio il sapere, il conoscere le informazioni di base, si dispiace. A me inquieterebbe molto di più che non dover rispondere[17].

Ci si confronta con l’obbligo di restituire al bambino ciò che si conosce del suo passato e di inserirlo in una prospettiva che consideri passato e presente, Burkina ed Italia, come spazi interconnessi nei quali si sviluppa non più solo la storia del figlio ma dell’intera famiglia. Queste indicazioni, di cui la Convenzione si fa promotrice, si basano su un nuovo approccio, quello del culture keeping. Per la sociologa inglese Heather Jacobson (2008) la conservazione della cultura è un modalità di replicare, almeno in parte, quello che viene considerato il patrimonio del paese di provenienza del bambino all’interno del proprio contesto familiare portando con sé gli aspetti più estetici al fine di «to ensure that their children have access to their ethnic pasts» (Jacobson 2008: 2).

Forse noi siamo molto facilitati da questo punto di vista perché chiaramente c’è una conoscenza profonda del paese. L’ultima volta che è venuta in Italia la responsabile del centro a Koudougou [centro nel quale svolgono volontariato attraverso un'associazione piemontese], che è una burkinabé, seduta nel salotto di casa mia dice «c'’è più Burkina nel tuo salotto che nel mio» perché effettivamente c’è. Per cui noi giochiamo facile da questo punto di vista[18].

I genitori trasformano allora i loro salotti, le stanze delle loro case in contenitori di oggetti che arrivano dal Burkina, memoria di una terra di cui il bambino perderà presto i ricordi. «Senza una conoscenza a priori o una cornice interpretativa entro cui comprendere un’altra cultura, i genitori si trovano facilmente catturati nella disponibilità di “cultura” offerta dal cosiddetto “turismo culturale”, il quale contribuisce in modo rilevante alla loro alfabetizzazione culturale» (Di Silvio 2015: 44). E allora i tappeti, le lampade, i vestiti portati dal Burkina diventano un mezzo per ricordare al figlio il luogo dal quale proviene pur svuotato da ogni contenuto, da ogni attinenza con il suo passato. Nel tentativo di collegare l’aspetto estetico a quello contenutistico gli operatori pongono l’accento sull’importanza del racconto della storia. La pratica della restituzione è dunque quella che vede maggiormente impegnanti i genitori nel momento successivo all’arrivo del bambino. Molte delle coppie adottive intervistate, tra quelle che avevano adottato già da qualche anno, hanno messo in evidenza la problematicità di essere i custodi della storia del proprio figlio.

A noi genitori adottivi richiedono molto. Ce lo dicono molto «siete voi un po’ i custodi di questi pochi ricordi» e io, tutto sommato, mi piace questa cosa. Nel senso ... c’è poco, c’è già poco nella sua storia da ricordarsi. Qualcosa riusciamo a tenercelo e un domani sarà qualcosa, qualcosa che lei ha. Qualcosina ci sarà, come qua. Alcune cose non le ricordiamo però ce le hanno raccontate le nostre mamme e i nostri papà: «quand’eri piccola facevi così, era successo quello. Ti ricordi la zia? Ti ricordi tuo fratello cosa aveva fatto, cosa aveva detto e tu gli avevi fatto e gli avevi detto e ti eri arrabbiata ed eri contenta. Ti piaceva fare questo, ti piaceva fare quello. Non volevi mangiare questa cosa». Noi non sappiamo, non sappiamo nulla e quindi queste poche cose sono preziosissime. Magari sì, magari ci diamo anche un’importanza superiore a quella che hanno. Però se poi non serviranno, se lei non li vorrà, sarà pur libera di buttarli via [...]. E infatti è per questo che mi interessa approfondire, per poter poi restituire un qualcosa con un senso più profondo, andare oltre un’etichetta, andare oltre queste poche frasi frettolose che sono state scritte. È un modo per darle qualche risposta […]. Non possiamo allargare i dati, perché non avremo mai dei dati in più, però possiamo approfondire quel poco che c’è. Allora non allarghiamo ma andiamo giù nel profondo e cerchiamo di tirare fuori qualcosa. L’adozione è un atto forte perché quando si decide che la strada per arrivare ad un bimbo [...]. Noi siamo arrivati all’adozione perché non potevamo avere figli nostri, lo dico onestamente. Ci abbiamo provato e non sono arrivati e abbiamo deciso di adottare. Quando si decide di adottare si scava molto[19].

Alle famiglie spetta il compito di raccontare al bambino, che si presume non ricordi la propria storia, la sua origine e il motivo della sua partenza dal paese in cui è nato per crescere in un altro. Gli operatori stessi consigliano ai neo-genitori di affrontare queste questioni proponendo una narrazione adeguata al livello di crescita, affinché possa essere facilmente compresa. Necessaria è una semplificazione del contenuto delle storie proposte nelle inchieste sociali, per adattarne la forma e la quantità d’informazioni all’età del figlio, trasformandola in una favola che leghi il suo passato all’incontro con i genitori adottivi e al suo arrivo in Italia. Principio fondamentale, secondo quanto disposto da ogni formazione effettuata da specialisti dei servizi o degli Enti, deve però restare la veridicità, per quanto edulcorata. Viene richiesto ai coniugi di illustrare fin da subito ai propri figli le parti fondamentali che riguardano il loro vissuto abbandonico e gli stessi operatori consigliano di rispondere sempre alle domande da loro poste su tali argomenti. Per fare ciò si suggerisce di costruire, sulla traccia di quanto emerso nell’inchiesta, una storia che spieghi i punti fondamentali del passaggio che ha condotto il bambino dal Burkina in Italia e fornisca già gli elementi che altrimenti emergerebbero sotto forma di costanti domande. Creare una connessione tra il passato e il presente, questo il fine; simbolicamente unire, almeno nella narrazione, i genitori ai figli, mettendo in evidenza ciò che li accomuna ovvero la ricerca di una famiglia. Per entrambi i soggetti coinvolti l’adozione funge infatti da pratica riparatoria ad una mancanza: per la coppia è la mancanza di un figlio, per il figlio è la mancanza dei genitori. Insieme si rendono entrambi famiglia. E allora i genitori cercano nell’inchiesta sociale segni che li leghino a quel bambino in particolar modo, prime forme del riconoscersi, del fare famiglia.

Quella di Jean, la storia del mugnaio che lo ha portato all’istituto, forse ci ha anche aiutato tanto. Devo dirti che ci ha aiutato perché è stato il modo di raccontare di una mamma che l’ha abbandonato, cioè per me non è un abbandono, era un modo di dire che c’era un’opportunità. Quindi il fatto che il mugnaio, la fortuna, come un bambino nato con la camicia da noi. Quindi l’abbiamo sempre vissuta in quel modo. Lui l’ha anche sempre recepita in quel modo. Anche quando è capitato un anno fa che gli hanno chiesto «ma tu sei stato adottato?» lui ha risposto «ovviamente!» come per dire «che cacchio di domanda mi fai?». Anche il fatto di risponderti così è stata un’evoluzione nel tempo, forse anche grazie al fatto che gli abbiamo sempre raccontato del mugnaio. Cioè lui l’ha sempre vissuta in maniera... perché la mamma lo aveva lasciato in un posto per farsi trovare, lo ha trovato un mugnaio che era ricco del villaggio e gli ha dato da mangiare, magari i suoi genitori naturali non avevano i soldi per, cioè non avevano il modo di… […]. Invece Grace [nome della seconda figlia adottiva] è stata trovata pare il giorno in cui è nata o il giorno dopo dai pompieri in una fossa e mio suocero era pompiere. Quindi anche questa cosa, per il momento non l’abbiamo ancora affrontata però ci servirà. Poi anche Marco [il marito] quando ha fatto il servizio militare ha fatto il pompiere e allora sai...[20]

Il racconto di questa mamma adottiva porta alla luce l’estrema forma di elaborazione simbolica dei dettagli della storia del bambino alla ricerca di un significato che possa legare i soggetti coinvolti. Il fatto che questa seconda figlia adottiva sia stata ritrovata e salvata da un gruppo di pompieri crea, nella strategia narrativa messa in atto, un collegamento con il padre adottivo il quale ha svolto il servizio militare come pompiere. Un ulteriore segno di predestinazione, un legame che li univa fin da prima del suo arrivo, fin da prima dell’abbinamento. Il concetto di destino interviene per colmare il vuoto di senso causato dal pensiero che l’incontro con il figlio desiderato sia determinato da una scelta meramente casuale, da una serie di pratiche burocratiche come quelle che caratterizzano il momento dell’abbinamento. I genitori adottivi si fanno dunque forti dell’idea «that their child was meant for them in some mysterious way. No other child would have done as well» (Howell, Marre 2006: 301). Metodi di elaborazione della storia che le famiglie adottive mettono in pratica per rispondere alle prime domande poste dal bambino. La conoscenza del passato, la sua reinterpretazione attraverso la lente della predestinazione, diventa strumento per evitare future crisi o momenti di dubbio che potrebbero sorgere nel figlio.

Una differenza somatica immediatamente percettibile, come quella che caratterizza genitori italiani e figli burkinabé, richiede ulteriori strategie di risposta. Il bambino si confronterà fin da subito con la diversità che intercorre tra lui e i suoi genitori e con quella evidenziata dal contesto sociale che lo circonda: compagni di scuola, vicini di casa, passanti. Questi bambini pongono molto precocemente le questioni che concernono il proprio passato, l’arrivo in Italia e il perché delle differenze tra loro e il resto della famiglia.

Ci sono coppie che si confrontano con l’assoluta assenza d’informazioni dalle quali attingere per non restare muti alle richieste di spiegazione dei figli e altre che invece si devono misurare con dossier che riportano storie alle quali non è facile dare un’interpretazione. Racconti di allontanamenti dolorosi e di esclusione sociale delle quali è difficile dare conto ad un bambino, situazioni complesse che vengono dunque semplificate nei loro passaggi più problematici per essere comunicate in momenti diversi «quando sarà in grado di comprendere»[21]. Questo è il caso delle cartelle che riportano come motivazione dell’allontanamento la malattia mentale della madre. Non sapere molto della storia di queste madri aiuta le famiglie a non caricarsi della responsabilità di raccontare verità “troppo crude” su madri considerate inadeguate. Di un tale vissuto doloroso è difficile farsi custodi, le famiglie si sentono portatrici di un segreto nei confronti dei loro figli che verrà loro celato nell’attesa del momento “opportuno”. Queste narrazioni mettono i genitori nella posizione di interrogarsi sulle proprie capacità di accettazione della storia pregressa dei figli. La difficoltà di comprendere e gestire terminologie specifiche come quelle utilizzate in alcuni dossier in riferimento alle madri biologiche (schizofrenia, disturbi della personalità, delirio) spinge le coppie a rivolgersi a medici e specialisti.

Ci siamo confrontati con loro [amici psichiatri] abbiamo un po’ inquadrato cosa poteva voler dire poi effettivamente una malattia psichiatrica dei genitori in Africa, che non era quello che spaventava noi e di conseguenza abbiamo dato la nostra disponibilità. È diverso, perché quando abbiamo detto no [al momento della compilazione del questionario conoscitivo fornito dall’Ente nel quale alle famiglie è richiesto di indicare le loro disponibilità di accoglienza in caso di bambini con storie familiari complesse] era riferito in generale, ma non avevamo calato nella realtà del problema. Perché a me spaventava l’idea di un bimbo chiuso in una casa con un malato psichiatrico. Invece il contesto africano, famiglia allargata, una serie di situazioni… […]. Domande ne fa poche, molto poche. Ogni tanto spunta, abbiamo avuto qualche momento, quando ha chiesto della sua mamma noi poi gli abbiamo detto solo che era molto malata. Non abbiamo specificato che tipo di malattia, perché è difficile da spiegare, comunque abbiamo spiegato che era una malattia per cui lei non poteva più prendersi cura di lui. Poi quando potrà capire meglio cos’è una malattia di un tipo, una malattia di un altro allora andremo avanti, spiegheremo meglio. Però più o meno lui sa che la sua mamma era molto malata[22].

Assomigliarsi

Nelle prassi quotidiane la famiglia adottiva si conosce e si riconosce, diventa tale. Pratiche giornaliere di ricomposizione che la aiutano ad auto-identificarsi prima di confrontarsi con il contesto sociale che li circonda. «By searching for similarities and resemblances, adoptive parents – and their relatives and friends – naturalize the relationship» (Howell, Marre 2006: 307). In alcuni casi si inizia a pensare che il legame di affinità che si crea oltre che nel carattere e nella gestualità si manifesti anche nella fisicità. Si diventa simili fisicamente, si rintracciano somiglianze lì dove si è coscienti che non possono esistere in quanto «likeness between biological kin confirms the reality of relatedness» (Howell, Marre 2006: 306). Il figlio diventa allora uguale al padre adottivo, non solo nella modalità di affrontare le situazioni, ma anche nelle rotondità del viso, nella carnagione “più scura”, si rintracciano, e a volte si costruiscono, le similitudini.

A volte quando ci guardano, perché sai adesso siamo in quattro. Vabbè io sono bianca cadaverica, mio marito è un po’ più abbronzato di me perché stando sotto il sole ha una pelle molto più scura e tra l’altro Marco assomiglia... cioè Jean e Marco si assomigliano molto fisicamente. In realtà hanno proprio i tratti, adesso al di là del modo di fare, però proprio fisicamente... adesso Jean è anche più lungo di faccia ma da piccolo era molto più “rotondoso” come il padre. Poi ti manderò delle foto perché... Adesso ha anche il modo di fare di suo padre, anche quando parla al telefono, poi fin da subito ha acquisito le... E Grace, anche lei adesso ha lo stesso modo quando parla al cellulare, ha acquisito in cinque mesi le stesse cose dovute alla famiglia. Anche il modo di porsi di parlare. Vedo guardando i miei figli che sono molto simili fra di noi e anche al modo di fare di mio marito e anche al mio perché su tante cose anche la gestualità di Grace è molto simile alla mia su tante cose. Quindi ti dicevo che quando le persone ci guardano con aria interrogativa, lo stupidario delle adozioni, che ti guarda come per dire «ma sono fratelli?» sai che ti chiedono «ma son fratelli?» «sì che son fratelli!» però vogliono sapere se sono fratelli di sangue o altro. Allora uno spiega il Burkina... E a volte dico a Jean «guarda abbiamo la faccia colorata di verde a strisce!» per dire... Lo abbiamo sempre fatto per sminuire il fatto della gente ti guardi perché vede due bambini... Vedere già un bambino adottato è già particolare, vederne due crea ancora più imbarazzo tra le persone. È capitato un mese fa, eravamo fuori a cena tutti e quattro e c’è stata una signora che è stata tutto il tempo girata a guardarci come se fossimo quattro extraterrestri seduti a tavola. Noi non ci facciamo caso, nel senso non è proprio che non ci fai caso, non ci dai peso. Però la gente la vedi a volte tanto imbarazzata, soprattutto adesso avendone due chiedono, ti guardano lo sai con quell’aria…[23].

La risposta allo sguardo incredulo ed indagatore dell’estraneo è quella di valorizzare la propria diversità, fare dell’adozione una pratica che li rende “genitori di serie A”. Ma il bambino stesso deve riuscire a rintracciare elementi che lo facciano sentire figlio di due genitori “bianchi”. La ricerca degli elementi di somiglianza li aiuta nel processo di familiarizzazione con i genitori e a consolidare il legame con i fratelli. «Resemblances, essentialize the tie, make it inherent, inevitable, and endure» (Modell 2002: 8).

Jean ti girava la mano e ti faceva vedere che lui aveva il palmo uguale al nostro. Oppure diceva che il papà aveva gli occhi marroni come lui. Lei invece è uguale al fratello e poi per proprietà transitiva noi siamo uguali[24].

Così, attraverso il primogenito, anche la sorella appena arrivata, che non ha ancora elaborato la sua modalità di identificarsi con i genitori, prende parte all’invenzione della famiglia. Tecniche utilizzate al fine di sentirsi simili, «that parents and children find such physical and behavioural similarities with each other as the expression of the children’s profound desire to belong to the family group» (Ouellette Belleau 2001: 85). I bambini burkinabé diventano così nassara (bianchi in lingua mooré), europei, figli di europei con gusti e abitudini europee.

Non sempre tale processo di riconoscimento è così immediato. Il disorientamento del bambino nei confronti del nuovo contesto familiare, la sua difficoltà nel trovare risposte alle differenze che intercorrono tra lui e i genitori, può perdurare e necessitare di più complesse strategie per farsi famiglia. Questo aspetto emerge particolarmente nel caso di un bambino adottato da una famiglia della provincia di Alessandria con una sorella, figlia biologica dei genitori. Sembra, in questa parte dell’intervista, di ritrovare quell’interiorizzazione, quell’epidermizzazione dell’inferiorità di cui parlava Fanon (1996: 10).

Il colore del palmo della mano glielo facciamo spesso notare noi, come gli facciamo notare... Per esempio mio marito è un musicista, suona, da sempre il suo desiderio era quello di nascere, lui lo dice sempre, «io pagherei per essere nero! Guarda che io ti invidio!». Perché lui spesso, e qui lo correggiamo tanto, lui vede noi come belli e lui come meno bello. Questa è una cosa che mi fa … Noi questa cosa qua, ci lavoriamo tantissimo, che poi è bambino meraviglioso. Però è così, ogni tanto … E Alessandria è un po’ una via di mezzo, nel senso che è una piccola città, non c’è l'integrazione che ci può essere in una grande città, c’è qualche cosa a cui bisogna stare attenti e lavorare un po’[25].

Avendo la sorella secondo me lo sente ancora di più perché dice «ok, lei era dalla tua pancia, è nata da te e tutto, io...» lui gli manca proprio secondo me questo pezzo qua. Lui vede che invece è diverso. Lei è nata in pancia, è stata con noi da sempre invece lui siamo dovuti andare a prenderlo perché la sua mamma non l’ha tenuto con sé. Quindi ha questa forte... L’altro giorno mi ricordo che ci ha fatto una tenerezza incredibile perché stavamo spiegando forse una parola difficile a Sofia che non conosceva e Sofia ha detto «sì, sì ho capito cosa vuol dire» lei ha chiesto «hai capito tu?» «No, voi siete bianchi quindi lo capite, io sono nero non posso capire questa cosa qua». Io sono rimasta, ho detto «ma, amore mio guarda che è una questione di testa, del cervello, non c’entra niente con il colore della pelle con quello che tu puoi capire. Tu puoi capire tante di quelle cose che tu non te ne immagini, hai delle capacità immense». L’ha tirato fuori così: «voi tre se lo avete capito è perché siete bianchi». Ogni tanto esce con queste cose qua che ti spiazzano[26].

Farsi carico ed accettare la percezione di una irriducibile diversità manifestata nei comportamenti e nelle parole di un figlio così profondamente desiderato non è semplice. Negli occhi del genitore quel bambino o quella bambina smettono di essere “altri” nel momento in cui entrano nella loro casa. Ma tali questioni poste da un figlio, non più immaginato da lontano ma figura del presente, che mette in crisi, evidenziano delle differenze che devono necessariamente essere ridotte per far spazio alla somiglianza e permettere loro di riconoscersi come parenti.

Per la coppia non si tratta soltanto di accogliere la storia di “quel figlio” ed integrarla alla propria; nel percorso di formazione compiuto per diventare famiglia adottiva, i genitori apprendono ad accettare il vissuto abbandonico del bambino (dando per scontato che ci sia), come anche le varie modalità con le quali trasmettergli ciò che ritengono opportuno della sua “cultura di origine”. Nella prassi adottiva i genitori «often become the primary managers of their children’s histories and identities, selectively providing their children with information about their past and choosing what aspects of the birth country and culture their children are exposed to» (Shaw 2011: 119). Il tentativo è quello di creare delle tangibili connessioni tra il passato del figlio e il loro presente insieme, di tracciare una prospettiva comune che conduca il bambino a comprendere come e perché crescerà in un paese nel quale non è nato. L’elemento del destino, come già evidenziato, assume un ruolo fondamentale in questo tentativo di semplificare quanto precedentemente accaduto. Ad esso viene ricondotta ogni domanda che prenda in considerazione altre possibili spiegazioni della presenza di un bambino “diverso” nel nucleo familiare. Questo al fine di proteggerlo, ma anche di proteggere la fragilità che caratterizza la famiglia adottiva nei primi momenti della sua formazione. L’evidenza di ciò che ci rende diversi, ciò che ricorda l’alterità, è un argomento da risolvere e per farlo si valorizzano le somiglianze anche se costruite, inventate. L’adozione è un processo di scambio perenne tra i diversi soggetti che vi prendono parte, ai quali è necessario fornire nuovi strumenti di interpretazione della complessità che scelgono di accogliere quando decidono di adottare il figlio dell’Altro.

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[1] Intervista a una madre realizzata ad Alessandria il 15 aprile 2016.

[2] Intervista a una madre realizzata a Torino il 19 aprile 2016.

[3] Si parla di comunità di sussistenza caratterizzate da un legame parentale.

[4] Qui e nei casi a seguire verranno utilizzati dei nomi fittizi.

[5] Inchiesta sociale, aprile 2009.

[6] Inchiesta sociale, febbraio 2010.

[7] Per cugini germani si intendono i cugini di primo grado che possono essere incrociati o paralleli. Per cugini incrociati si intendono i figli del fratello della madre o della sorella del padre. Per cugini paralleli si intendono invece i figli del fratello del padre e della sorella della madre.

[8] Inchiesta sociale, novembre 2011.

[9] Tratto dalla rivista L'Evénement, Les malades mentaux, les damnés de la santé publique burkinabé, di Ramata Soré del 30 Dicembre 2006 e consultabile alla pagina: http://archives.evenementbf.net/pages/dossier_2_106.htm (consultata il 9 Luglio 2016).

[10] Inchiesta sociale, giugno 2012.

[11] Per approfondire i temi del valore sociale del processo di medicalizzazione e della concezione mossi del disturbo psichico (in sette dossier su quindici di bambini il cui allontanamento risulta causato dalla malattia mentale della madre viene specificata l’appartenenza a questa etnia) fare riferimento a Bonnet 1988b.

[12] Inchiesta sociale, Luglio 2014.

[13] Inchiesta sociale, Marzo 2010.

[14] Inchiesta sociale, ottobre 2008.

[15] Intervista a una madre realizzata a Tortona il 9 aprile 2013.

[16] Intervista a una madre realizzata a Tortona il 9 aprile 2016.

[17] Intervista a una madre realizzata a Torino il 12 aprile 2016.

[18] Intervista a una madre realizzata a Torino il 12 aprile 2016.

[19] Intervista a una madre realizzata a Torino il 8 aprile 2016.

[20] Intervista a una madre realizzata a Tortona il 9 aprile 2016.

[21] Intervista a una madre adottiva realizzata a Genova il 17 aprile 2016.

[22] Intervista a una madre adottiva realizzata a Genova il 16 aprile 2016.

[23] Intervista a una madre realizzata a Tortona il 9 aprile 2016.

[24] Intervista a una madre realizzata a Tortona il 9 aprile 2016.

[25] Intervista a una madre realizzata ad Alessandria il 15 aprile 2016.

[26] Intervista a una madre realizzata ad Alessandria il 15 aprile 2016.