Nuove forme di relazione familiare

Presentazione

Rossana Di Silvio

Università di Milano Bicocca

Carlotta Saletti Salza

Università di Torino e Verona

Table of Contents

Gli articoli proposti in questa sezione monografica costituiscono una selezione delle idee e delle tematiche dibattute all’interno del panel “Nuove forme di relazioni familiari: connessioni, disconnessioni e riconfigurazioni nel processo di creazione dei legami per adozione” ospitato dal IV Convegno della Società Italiana di Antropologia Applicata. In quella occasione, Carlotta Saletti Salza[1] e io[2], quali organizzatrici del panel, avevamo illustrato ai partecipanti, ricercatori della parentela e professionisti della famiglia, il nostro desiderio di rendere lo spazio del panel una prima opportunità per avviare un confronto interattivo che non si esaurisse con l’evento congressuale ma ponesse le basi per un dialogo prolungato, stimolante e concretamente interdisciplinare tra l’antropologia e le molte altre scienze dell’uomo. E soprattutto tra l’analisi speculativa e le “arti pratiche”. Questo a partire da una riflessione condivisa[3] sulla complessità dei nuovi scenari familiari e sulla molteplicità di voci che li definiscono e/o li attraversano. E che molto spesso si intersecano ma non si parlano.

Da qualche tempo, nuove configurazioni familiari si stanno affermando sulla scena della parentela euro-americana, Italia compresa, suscitando grande interesse, curiosità etnografica e critica riflessiva da parte dell’antropologia e di altre scienze sociali[4] (tra gli altri Weston 1991, Franklin, McKinnon 2002, Carsten 2004, Strathern 2005a, Yngvesson 2010, Grilli, Zanotelli 2010, Saletti Salza 2014). Parallelamente, le criticità che queste trasformazioni portano con sé sfidano la pratica professionale quotidiana del patrimonio abituale di saperi e di technè degli operatori dei servizi alla famiglia, chiamati dalle norme e dalle istituzioni pubbliche a comprendere e gestire, sempre più da una prospettiva di governance [5], gli effetti sociali generati dalle cosiddette “famiglie post-familiari” (Beck-Gernsheim, 1998).

Alla forma, ancora dominante, di famiglia nucleare fondata sul legame di sangue (o biogenetico) si accompagnano oggi famiglie adottive (Di Silvio 2008), famiglie omogenitoriali (Grilli, Parisi 2016) o monogenitoriali, famiglie da riproduzione medicalmente assistita e/o surrogata (Guerzoni 2017), famiglie ricomposte (Segalen 2010): tutte insieme si trovano a coesistere nel medesimo lasso storico, benché con alterne fortune sul piano della legittimità giuridica e sociale ma in ogni caso problematizzando fortemente tanto il principio egemonico del sangue che il principio dell’esclusività del legame di filiazione/genitorialità. Legami eccentrici a cui i protagonisti, gli apparentati, debbono assegnare un senso coerente nella cornice non ancora culturalmente desueta della famiglia tradizionale e un valore emozionale e affettivo che ne attesti la legittimità e ne áncori la profondità temporale. Ai propri occhi e allo sguardo degli altri (Di Silvio 2015). Ma se il mondo domestico delle pratiche e degli affetti e il mondo sociale della famiglia appaiono sempre più complessi e scivolosi allora diventa palese come la loro lettura e comprensione richiedano un sistema complesso di strumenti (Strathern 2005b) che non può essere fondato su un’unica epistemologia (Josephides 2015).

A partire da queste premesse, con Carlotta Saletti abbiamo pensato potesse essere stimolante avviare il dialogo tra ricercatori e professionisti facendoci guidare dall’apparentamento adottivo e dalla sua complessità. Una scelta non riconducibile soltanto all’interesse che entrambe nutriamo da tempo verso l’indagine della parentela adottiva contemporanea, quanto alla considerazione che la creazione di questa particolare forma di relazione familiare costituisce una sorta di laboratorio “a cielo aperto” del fare famiglia. Lo spazio dell’apparentamento adottivo consente, infatti, di esplorare come persone spesso estranee tra loro diventano parenti, mettendo in campo quali tattiche e strategie, a quali vincoli culturali si trovano assoggettati, quale margine di “creatività” riescono a garantirsi, quale “costo” sociale i loro legami eccentrici debbono fronteggiare e in che modo lo fanno. Uno dei costi interseca certamente la tensione performativa delle istituzioni pubbliche dedicate, dei suoi saperi e delle sue procedure (Saletti Salza 2017). Una tensione che si declina concretamente attraverso i paradigmi disciplinari e le pratiche dei professionisti dei servizi alla famiglia e si articola nell’urgenza di riportare all’interno delle categorie conosciute questi legami non conformi (Di Silvio 2017a). Spesso con esiti molto diversi dalle attese. È in questo scarto, e nell’attrito prodotto da spinte contrarie – della “creatività” dei neo-parenti e della performatività delle istituzioni (Di Silvio 2017b) –, che diventa ormai improcrastinabile la collaborazione interdisciplinare intesa non tanto come trasmissione unidirezionale di segmenti di saperi dal ricercatore all’operatore, dalla teoria alla pratica, ma come inter-penetrazione di conoscenza tra ricercatori e operatori (Strathern 2004, Rothen 2004). Si tratta di un obiettivo forse troppo ambizioso, probabilmente irrealizzabile nella sua interezza, ma potrebbe, nella sua tensione, costituire quello stimolo-mezzo di vygotskijana memoria[6] (Vygotskij 1990) attraverso cui ampliare epistemologie scontate e promuovere pratiche e interpretazioni del mondo in una direzione più appropriata alla comprensione del mondo familiare contemporaneo.

I contributi che vengono qui presentati rispecchiano, sia sul piano delle appartenenze disciplinari che delle pratiche professionali, le diversità delle voci che hanno preso parte al dibattito. Diverso sarà pertanto anche lo stile della scrittura che dà conto delle sue differenti finalità e della diversità degli interlocutori a cui abitualmente è indirizzata. Tuttavia, tutti i contributi si snodano lungo i temi che intrecciano parentela adottiva e interdisciplinarietà, con lo sguardo rivolto in modo particolare agli attori che animano questi legami familiari, ancor oggi individuati come “eccentrici” per quanto meno che nel passato.

Da questa prospettiva, Martina Concetti ha indagato in che modo le procedure globalizzate dell’adozione internazionale intersecano l’evento dell’abbandono del bambino e la sua immissione nel circuito adottivo e in che modo connettono le “traiettorie biografiche” della cosiddetta “triade adottiva”[7] tra il qui dell’accoglienza e il là dell’origine. L’esplorazione si sviluppa a partire da un’analisi dei documenti stilati in Burkina Faso dagli operatori locali dell’adozione, mettendo in evidenza la creolizzazione delle categorie e del linguaggio psichiatrico occidentale, che trova in queste figure i mediatori semantici, e non solo linguistici, tra il sistema culturale di provenienza e di accoglienza del bambino. In questo modo, ad esempio, vincoli di parentela e pratiche matrimoniali proprie della popolazione Mossi, che individuano nella gravidanza fuori dalle regole tradizionali di scambio matrimoniale il frutto di un incesto, obbligando la madre a lasciare andare quel figlio, possono essere riconfigurati in quadri diagnostici biomedici impropri a descrivere la realtà dell’origine e, tuttavia, tali da rendere comprensibile e giustificabile il trasferimento adottivo del bambino agli occhi degli enti adottivi e delle aspiranti coppie adottive italiane.

Se nel processo di “invenzione della famiglia”, come segnala Concetti, la preoccupazione maggiore dei neo-genitori è di creare una continuità coerente tra passato e presente, il contributo di Silvia Chiodini, che troverete nella sezione dedicata agli interventi, illustra come questa rappresenti la richiesta che più di frequente viene avanzata ai servizi per l’adozione subito dopo l’arrivo del bambino. Chiodini affronta questa tematica dall’interno, ovvero dalla prospettiva delle professioni operative chiamate dalla legge dello Stato a sorvegliare e governare il buon esito dell’apparentamento adottivo. Il suo contributo apre proprio con una disamina critica delle norme riguardo l’adozione, discutendo come queste conservano ancora oggi una spiccata attenzione agli adulti coinvolti nell’apparentamento piuttosto che ai bambini. La necessità di rispondere alle richieste dei neo-parenti e la tipologia dei nuovi arrivi per adozione, in particolare la maggiore età dei bambini, impone, dal suo punto di vista, l’assunzione di nuove prospettive interpretative, più appropriate alla realtà dei legami adottivi contemporanei, che aiutino gli operatori a ricostruire le biografie dei neo-parenti, e dei bambini soprattutto, ridando loro uno spessore tridimensionale che il dislocamento burocratizzato ha opacizzato.

L’assoggettamento della figura del bambino, a fronte della centralità di una visione adulto-centrica, torna nuovamente nel contributo di Rossana Di Silvio che riflette criticamente su queste tematiche connettendo, da una prospettiva storica, l’affermazione e il radicamento di una particolare visione dell’infanzia con la trasformazione normativa del bambino in “minore” e la sua più recente variante di “orfano sociale”, ampiamente utilizzata dal lessico adottivo. Il contributo illustra come, tanto nella ricerca quanto nelle prassi operative dedicate, il paradigma primigenio dell’infanzia “innocente e vulnerabile” abbia lavorato e tuttora lavori per orientare le analisi, le procedure e le attività professionali nella direzione di una censura della capacità agentiva e di autodeterminazione del “minore”. Una visione che assume tratti paradossali nelle adozioni di bambini provenienti da contesti e storie di vita in cui l’abilità di muoversi nel mondo sociale è spesso un pre-requisito alla sopravvivenza ma che diventa, agli occhi della cultura di accoglienza, un segno della perdita dell’“innocenza”.

L’agency del bambino non trova espressione soltanto nelle lontane e perlopiù sconosciute condizioni esistenziali di provenienza: Chiara Costa descrive come il ritratto intergenerazionale dà modo di osservare da vicino la partecipazione attiva del bambino nel processo di performazione della nuova famiglia. In una feconda collaborazione con una ritrattista professionista e utilizzando lo strumento della foto-elicitazione, Costa pone in evidenza il potere creativo dei neo-parenti in cui si confrontano modelli d’infanzia del bambino, da coniugare con le attese performanti dei nuovi genitori, e proiezioni future di co-costruzione della famiglia. In questo processo, di cui la fotografia offre una descrizione densa, le condizioni di provenienza del bambino e le sue precedenti relazioni plurime, in definitiva la sua stessa alterità, vengono decostruite e ricondotte ad una relazione duale, genitore-figlio, nello sforzo congiunto di costruire una memoria familiare condivisa che legittimi l’appartenenza e il valore sociale del nuovo legame di famiglia.

Bibliografia

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Beck-Gernsheim, E. 1998. On the Way to a Post-Familiar Family: From a Community of Need to Elective Affinities. Theory, Culture and Society, 15, 3-4: 53-70.

Carsten, J. 2004. After Kinship. Cambridge. Cambridge University Press.

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Di Silvio, R. 2017a. «L’ammaternamento adottivo di figli “diversamente etnici”: tradimenti e trasgressioni della congruità razza-parentela», in Essere madri oggi tra biologia e cultura. Etnografie della maternità nell’Italia contemporanea, (a cura di) M. Giuffrè. Pisa. Pacini: 71-100.

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Franklin, S., McKinnon, S. (ed.) 2002. Relative Values. Reconfiguring Kinship Studies. Durham NC. Duke University Press.

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Saletti Salza C. 2014. Famiglie amputate. Le adozioni dei minori dal punto di vista dei rom. Roma. Cisu.

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Strathern, M. 2004. Social Property: An Interdisciplinary Experiment. PoLAR, 27,1: 23-50.

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Yngvesson, B. 2010. Belonging in an adopted world: Race, identity, and transnational adoption. Chicago University of Chicago Press.



[1] Antropologa, collabora con le Università di Torino e Verona, si è occupata degli allontanamenti familiari, della tutela e dell’adozione di minori rom.

[2] Antropologa e psicologa, collabora con l’Università di Milano-Bicocca e lavora presso l’Agenzia Territoriale per la Salute della città metropolitana di Milano.

[3] Entrambe vantiamo esperienze abbastanza approfondite, per quanto diversamente articolate, sia dei servizi alla famiglia che della ricerca etno-antropologica: Carlotta Saletti ha partecipato a numerosi progetti che hanno coinvolto sia l’accademia e gli enti pubblici (tutela minorile), mentre per quanto mi riguarda, la mia doppia appartenenza disciplinare mi ha portato a lavorare per molti anni nei servizi alla famiglia come psicologa.

[4] Tanto da dare vita a un particolare campo di indagine, ben attestato nei Critical Kinship Studies.

[5] Governance intesa come categoria politica che attiene alle forme contemporanee della governamentalità, in questo caso al campo del governo sociale della famiglia (cfr. Arienzo 2007).

[6] Secondo Lev Vygotskij, considerato il capostipite della psicologia russa di inizio Novecento, nonché fondatore della cosiddetta scuola storico-culturalista, lo stimolo-mezzo è uno “stratagemma” che l’uomo si crea, accanto alle conoscenze “naturalmente” date, per agire in modo differente in una situazione analoga a quelle già esperite. Il “modello culturale”, sostiene l’autore, è uno di questi stratagemmi. Inoltre, l’esposizione a stimoli-mezzo diversi (concettuali e operativi) sollecita nei partecipanti una “zona di sviluppo prossimale”, vale a dire un’estensione/arricchimento del potenziale della conoscenza già acquisita, che può prodursi ed affermarsi soltanto all’interno di una dimensione squisitamente interpersonale/relazionale. Benché le nozioni vygostkijane siano da tempo relegate ai margini del sapere psicologico, ormai ampiamente offuscate da (inverosimili) approcci mutuati dalle “scienze dure”, e benché del tutto estranee all’analisi antropologica, tuttavia, a mio parere, occorre riconoscere la capacità di tali nozioni di centrare ottimamente il punto della presunta utopia della collaborazione interdisciplinare.

[7] Nel linguaggio professionale dell’adozione la “triade adottiva” individua il sistema composto da genitori biologici, genitori adottivi e bambino (cfr. Di Silvio 2008).