Conversazione con Simona Taliani

a cura di Bruno Riccio


Bruno Riccio: Sia nei convegni nazionali, sia all'interno di iniziative locali più circoscritte, la nostra associazione (SIAA) ha creato spazi di confronto sulle diverse sfide professionali con cui il sapere antropologico deve misurarsi quando prova ad applicarsi nello spazio pubblico (contesti interdisciplinari, effetto della crisi, collaborazione e mutualismo). Questo informale laboratorio permanente di antropologia applicata continua in micro e con incontri un po' più frequenti questo tipo di confronti. Riunisce alcune persone che hanno una formazione antropologica ma che lavorano nello spazio pubblico e che, partendo dal presupposto che non esista un modello di antropologia preconfezionato astratto, prova ad esplorare i modi e le molteplici esperienze dell’applicazione dell’antropologia in differenti contesti: clinici, educativi, della cooperazione internazionale e delle politiche pubbliche e del mondo dei servizi. Costituisce in questo modo un cantiere in cui gli antropologi possono raccontare e riflettere assieme su come gestiscono i loro diversi modi di essere antropologo.[1]

Simona Taliani, da questo punto di vista, costituisce un ottimo esempio, perché ha svolto e pubblicato lavori molto impegnativi dal punto di vista teorico e analitico, ma, contemporaneamente, vanta un' altrettanto ricca esperienza di intervento in quel mondo dei servizi dove — per citare proprio un suo articolo uscito recentemente sulla rivista L’Uomo — “siamo chiamati e responsabilizzati a trovare un modo di posizionarci e di dialogare con altri professionisti, psicologi, medici, avvocati, giudici, assistenti sociali”. In un suo altro articolo, pubblicato in Lares, invita a storicizzare l’inaudito, contestualizzare la violenza, e a evitare di produrre un sapere pret à porter. Ora, volendo rovesciare il punto di vista, ci chiedevamo come invece provare a mettere a frutto la sensibilità contestualizzante, problematizzante e critica dell’antropologia sociale, per renderla intelligibile, digeribile a persone che operano con altre culture professionali e organizzative nei contesti lavorativi in cui interveniamo. Ovviamente, ti chiederemmo di provare a rispondere riferendoti alla tua esperienza professionale anche in ambito clinico e nei servizi.

Simona Taliani: Vorrei fare due premesse necessarie. La prima è che ho lavorato come antropologa in condizioni di privilegio, perché il Centro Frantz Fanon si è costituito a partire dall’iniziativa di un gruppo di persone coese intorno ad un progetto e sulla base, fin dall’inizio, di molta informalità e amicizia. Questo processo d’invenzione e creatività ci ha permesso di essere meno condizionati sia rispetto a coloro che operano in servizi pubblici o istituzioni, dove norme e burocrazia regolano quotidianamente il lavoro (anche di ricerca), sia rispetto a coloro che si sono inseriti nel terzo settore, nel privato sociale o in quella che è stata a ragione definita la grande macchina dell’umanitario. Come antropologa ho lavorato dialogando con alcune istituzioni sanitarie o, come mi succede più spesso negli ultimi anni, con i tribunali per i minorenni, in un contesto – ripeto – privilegiato dal fatto di poter stabilire io di volta in volta le condizioni del mio intervento dentro le Istituzioni. Se parlo di “privilegio” non è perché qualcuno ci ha concesso questo spazio: faticosamente esso è stato costruito e faticosamente ogni anno può andare incontro ad una potenziale chiusura. E il Centro e l’esperienza tutta (dei seminari, dei gruppi di parola, delle letture serali, degli interventi nelle scuole…) possono esaurirsi se cadono le condizioni della sua apertura. La consapevolezza che di anno in anno si potrebbero perdere queste condizioni ci impone di restare vigili e costantemente impegnati, di settimana in settimana, di mese in mese.

Nel 2013 c’è stato un appello, a inizio anno, per garantire l’apertura del Centro Fanon perché l’azienda sanitaria ci aveva invitato a lasciarne i locali senza prevedere nuovi spazi dove poter operare: a quel tempo seguivamo 250 pazienti, senza alcuna alternativa per continuare a seguire la presa in carico altrove. Avevamo bisogno assolutamente di spazi anche in vista di una possibile conclusione del percorso terapeutico avviato (la relazione terapeutica chiaramente non può essere recisa in modo improvviso, per cause per altro esterne alla relazione stessa). Abbiamo trovato il sostegno di diverse associazioni e centri culturali o ricreativi cittadini, che ci hanno offerto i loro locali: abbiamo re-inventato i setting (all’Unione culturale, al Gruppo Abele), fino al momento in cui abbiamo potuto affittare una sede indipendente per continuare la attività.

Da allora, il lavoro si è moltiplicato e complicato, dovendo avere oggi la forza progettuale e l’autonomia economica per mantenere una sede con i suoi costi vivi. Viviamo dunque costantemente con la consapevolezza che una chiusura è possibile. Il privilegio di cui parlavo prima si mantiene però nei momenti essenziali del lavoro: valutiamo noi di volta in volta cosa scrivere in una relazione, come parlare in sede di udienza, come costruire un progetto di sostegno...

La seconda premessa, che riguarda decisamente un ambito personale, si riferisce alla mia doppia formazione, sia psicologica (con un percorso di formazione psicanalitica) che antropologica (con il dottorato di ricerca). Questo ibrido fa di me – come già George Devereux sottolineava tra il serio e il faceto – una persona condannata ad un doppio non-riconoscimento. Quando, per esempio, per la tesi di specializzazione in psicoterapia psicanalitica ho presentato il mio lavoro sulle donne richiedenti asilo e sul corpo impudico – che in parte è poi sfociato in quell’articolo pubblicato su Lares, all’interno del numero monografico curato da Barbara Sorgoni – durante la discussione scarno spazio è stato dato al mio tentativo di storicizzare la violenza che le donne incontrate avevano subito. In altre circostanze, il tentativo di scrivere intorno al lavoro che svolgo al Centro Fanon può sollevare perplessità negli antropologi rispetto al mio ruolo, al modo in cui ho concordato con le persone la possibilità di scrivere intorno a delle storie ascoltate per la prima volta in un setting clinico. Ricorderete quando Sylvie Fainzang scriveva, a proposito dell’essere antropologo medico e allo stesso tempo medico, la necessaria mutua esclusione dei ruoli (l’essere l’uno o l’altro).

Mi sento quindi in una cornice di doppio non riconoscimento, come dicevo, dove non è sempre scontato comprendere da quale posizione io parli, né riconoscerla come legittima. Procedo ambivalente nell’ostinata convinzione che sia fondamentale creare degli interstizi di dialogo tra le discipline, incorporando la duplicità e mettendola in scena. Cerco di scrivere in base alla domanda che mi interroga di un dato incontro, senza ossessioni disciplinari classificatorie. E fino ad ora è andato tutto abbastanza bene.

BR: Quando avete scritto a quattro mani (con Roberto Beneduce) su Animazione Sociale, una rivista rivolta specificatamente a chi lavora nei servizi, che tipo di accorgimento avete seguito? Lo chiedo perché ritengo che il mondo dei servizi possa rivelarsi meno ostile agli incroci interdisciplinari e dei linguaggi professionali, soprattutto quando ci si occupa di migrazioni, fenomeno che per essere compreso richiede prospettive anche diverse e tutte di uguale legittimità.

ST: Per risponderti onestamente dirò una cosa forse inopportuna. Io scrivo egoisticamente per me. Il momento della scrittura per me è un momento propizio per parlare di quello che mi interessa di più, che mi ha posto delle questioni, per metterle a fuoco, per rifletterci e per utilizzarle negli incontri che verranno (essendo il mio “campo” prolungato). Provo a farti un esempio. Un recente lavoro, che è uscito su Social Compass, ruota intorno alla questione del feticcio: scriverlo mi è servito per pensare a delle persone in carne ed ossa, con le quali ho un dialogo costantemente aperto, spesso dentro il registro di una sofferenza che ritorna. Scrivere mi ha permesso di guardare con attenzione ad alcuni profili del “feticcio” che ho poi avuto modo di riprendere, riattivare, riesplorare nei miei rapporti terapeutici ed etnografici.

Nel risponderti, mi accorgo che questa domanda mi aiuta a dire qualcosa intorno alle scelte compiute. Dopo la ricerca di dottorato svolta in Camerun, mi sono sempre più spostata su un terreno di ricerca che è quello della migrazione, un campo che non si presta a facili “interruzioni”. Sono costantemente immersa nel campo e questo fa sì che tra ricerca, scrittura, richieste di revisione da parte di lettori anonimi, ripensamenti critici e incontri etnografici non ci sia soluzione di continuità.

BR: Provi a dargli voce nel modo rispettoso della complessità che hai vissuto come ricercatrice

ST: Si, anche se d’altra parte il lavoro di scrittura sospinge verso la creazione di un fermo-immagine, che serve per fissare ciò che dobbiamo vedere e comprendere. Scrivere è comunque una forma di reificazione, per quanto lo stile narrativo scelto si proponga di restituire la plasticità dell’oggetto di studio, la sua trasformazione. Scrivere mi è certamente servito per capire meglio alcune dinamiche inerenti alle relazione con queste “altre” che sono nel mio caso specifico, molto spesso, le donne nigeriane che continuo ad incontrare mentre scrivo, dopo che ho scritto, quando poi riprendo a scrivere... Mi telefonano, nel bel mezzo di un lavoro di scrittura, rendendo porosa la frontiera tra i momenti del nostro lavoro.

BR: Devo inserirmi proprio ora con una domanda quasi corale, poiché molti di noi non ritengono, come induce a credere Geertz, che l’antropologo fondamentalmente scriva e basta. Quando intervieni in ambito delle pratiche di presa in carico e di cura — godendo di quella libertà che hai appena evocato e ben spiegato, portando te stessa con tutta la tua formazione interdisciplinare — , che strategie adotti per rendere efficace e intelligibile la tua comunicazione, per mettere a frutto il tuo “capitale culturale” nel dialogo con le altre professioni e gli interlocutori più diversi?

ST: Quando mi impegno ad utilizzare il “capitale culturale” è principalmente in due contesti: quello della cura e quello delle Istituzioni deputate all’accoglienza e all’integrazione o alla valutazione (ne dirò qualcosa a breve). Rispetto al primo ambito, ci muoviamo nel registro dell’etnopsichiatria. Molto è stato scritto, molto anche criticato dagli antropologi medici che hanno sostenuto la deriva nel culturalismo di certi approcci etno-psichiatrici …

BR: Che non è poi il vostro caso, ma di quegli etno-psichiatri che si sono innamorati dell’esotico

ST: … sul fatto se non sia il nostro caso, penso sia utile spendere qualche parola in più. Quando gli antropologi fanno ricerca entro dei sistemi di cura – come nel caso dell’etnopsichiatria – è in gioco in modo preponderante la comprensione della natura stessa del rapporto terapeutico. Se qualche collega venisse a osservare quello che faccio, potrebbe dire che anche nel mio approccio alla cura ci sono dei momenti o dei passaggi di scivolamento nel culturalismo o di una reificazione nella cultura. Mi spiego attraverso un esempio, forse rozzo: se incontro una donna nigeriana che è stata appena ricoverata presso il servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC), senza che i medici abbiano ancora formulato una diagnosi e tantomeno compreso di cosa soffra, si segue un protocollo preciso (un Trattamento Sanitario Obbligatorio viene avviato, una terapia psicofarmacologica iniziata…). Se qualcuno tra voi venisse con me, in quello spazio mi muoverei come psicoterapeuta e antropologa e cercherei di utilizzare il “mio” capitale culturale. Se questa conoscenza pregressa, questo sapere pret-à-porter, mi fa suppore che quella donna viva un momento di profondo panico morale perché teme un’aggressione sul registro mistico dell’invisibile, agirei un certo sapere stereotipizzato (reificato e reificabile) per creare le condizioni di parola tra me e questa donna. Vedete già bene come la relazione è sbilanciata nel momento in cui esplicito quanto io “già so”. I coniugi Ortiguez nel riportare le loro esperienze senegalesi avevano sottolineato la complessità metodologica nel momento in cui i due saperi si incontrano e agiscono in uno stesso spazio, che è di cura (dunque di un sapere che ha un potere di trasformazione entro una data relazione; di un sapere che ha il potere, sebbene non sempre efficace, di modificare il mondo). Se nel rapporto etnografico ci si può permettere di non sapere niente dell’altro e solitamente il ricercatore si pone in un’ottica di apprendimento (Lévi-Strauss, in Razza e storia, parlava dell’essere testimone e allievo), nel rapporto terapeutico io pongo le condizioni perché la signora “sappia” che condividiamo un orizzonte di senso e che certe esperienze possono essere dette, raccontate attraverso un dato vocabolario. Perché si possa creare una relazione terapeutica, deve esserci da qualche parte nel paziente l’idea (anche falsa) che il terapeuta qualcosa sappia. Come potrebbe altrimenti formularsi una domanda di un aiuto? Perché una persona dovrebbe rivolgersi a me se pensa che io non ne sappia proprio niente di ciò di cui lei o lui soffre? Affinché quella signora possa un minimo (af)fidarsi, devo farle capire che qualcosa del suo malessere lo conosco in un registro interpretativo che non lei sia totalmente estraneo, e per questo uso il capitale culturale che ho appreso facendo ricerca sulla stregoneria (in Camerun, in Mali, nella diaspora, con altre donne nigeriane…). Nel momento in cui agisco in questa direzione, se qualcuno di voi fosse lì a osservarmi, sentirebbe ad un certo punto domande del tipo: “Hai pensato che potrebbe trattarsi di stregoneria?”. Perdonate la grossolanità, ma è giusto per farvi comprendere che sarei io a proporre un registro interpretativo, senza necessariamente aspettare che sia la signora a fornirlo e a dirlo. Le ragioni di questo modo di incedere sono molteplici (il contesto ospedaliero o ambulatoriale in cui la conversazione avviene, le aspettative della signora su cosa dire o non dire al cospetto di operatori socio-sanitari italiani, ecc.). Come faccio a farmi riconoscere come “diversa” rispetto alle altre persone che ha conosciuto fino a quel momento se non le faccio capire io che qualcosa d’altro so rispetto a quanto le hanno già proposto o imposto gli altri colleghi incontrati?

Dicevo che se, in via ipotetica, un antropologo o un’antropologa mi accompagnassero nella ricerca ma non fossero familiari a come si costruisce una relazione terapeutica, vedendomi in quel preciso istante in cui propongo una interpretazione – in cui sono io a dire alla signora “può essere stregoneria” – potrebbero arrivare alla conclusione che io stia reificando la nozione di una cultura immobile, fissa, tradizionale; stia facendo in altri termini scivolare l’altro nel più becero “culturalismo”. Sono esposta al pari di altri colleghi che si sono mossi o ancora si muovono nello spazio etno-psichiatrico alla critica di una deriva culturalista (non torno sui toni con cui in Francia la critica è stata feroce, perché ne ho recentemente parlato in un articolo pubblicato su AM. Antropologia medica: da tempo cerco di riflettere su come de-confiscare l’etnopsichiatria da un discorso che, a mio parere, non coglie nel modo più assoluto i punti nevralgici di cosa significhi usare la cultura come leva terapeutica, perdendosi piuttosto intorno a quisquiglie la cui natura è opaca, diciamo quantomeno opaca).

Devo tentare di spiegare a quell’antropologo o antropologa che io in quel momento – quando chiedo all’altro se pensa sia stregoneria – non lo sto costringendo dentro il limitato orizzonte di una sua presunta cultura d’origine, né lo sto obbligando ad usare un unico orizzonte interpretativo. Sto proponendo un orizzonte di senso che è fondato su un certo capitale culturale nella consapevolezza che quella persona non lo sta trovando da nessun’altra parte (nei servizi pubblici, nelle strutture di accoglienza, negli spazi che frequenta quotidianamente) e che sta vivendo una divisione culturale intima profonda.

BR: È a suo modo un essenzialismo strategico.

ST: Possiamo definirlo in questi termini. È un essenzialismo che mi permette di costruire una relazione e una volta che la relazione è costruita non sappiamo nulla della sua trasformazione: in che direzione andrà quel modello interpretativo? Con molte delle donne nigeriane che conosco ormai da dieci anni, oggi a distanza di molto tempo ci facciamo delle grasse risate della sofferenza vissuta “per” la stregoneria fatta. Ne parliamo entro un altro orizzonte di senso, pur tenendo ferma una certa “esperienza” da loro vissuta e ricordata.

BR: E dal punto di vista clinico, dà soddisfazione?

ST: Dal punto di vista clinico, il fatto di aver sottratta quella persona alla cronicizzazione, sottratta ad un uso massiccio di psicofarmaci, reinserita in un contesto sociale dove si sente nuovamente capace di fare, nuovamente capace di costruire il suo futuro, sì, è la mia parte di godimento in tutto questo.

BR: Il secondo ambito?

ST: Il secondo ambito è più delicato perché ha a che fare con i vari altri professionisti, che utilizzano la dimensione culturale, senza esserne “esperti” come lo sono le “pazienti”, perché, evidentemente, quando parlo di stregoneria con le donne nigeriane che incontro in ospedale o al Centro Fanon una esperienza in materia loro ce l’hanno. Quando opero nel settore delle Istituzioni e intrattengo dunque conversazioni con un giudice minorile o con uno psicologo... accade spesso che il “capitale culturale” di cui stiamo parlando non evochi per loro assolutamente nulla o qualcosa di stereotipato. Può anche capitare che questi miei interlocutori inseriscano tali nozioni, concetti, pratiche entro un orizzonte interpretativo altro che fa della “stregoneria” – se rimaniamo nel solco di questo esempio – una psicosi, una menzogna, un tentativo di manipolazione della situazione. Si alimenta così un sospetto, nel campo specifico di cui mi occupo da alcuni anni intorno al tema della genitorialità migrante: può una donna superstiziosa che crede in cose che non esistono crescere adeguatamente il suo bambino?

BR: E cosa usi a questo punto?

ST: Uso tecniche, stratagemmi e a mia volta manipolo. Uso quanto è in mio possesso per scardinare delle logiche che sono prima che di conoscenza di potere. I rapporti sono evidentemente asimmetrici: quando uno psichiatra dice che la madre nigeriana ricoverata è psicotica, i neurolettici vanno presi; l’educatore della comunità dove è accolta si comporterà di conseguenza; può accadere che il figlio venga allontanato e inserito in un contesto comunitario solo per minori e molte altre conseguenze ancora su cui non mi soffermo ora. La voce delle persone immigrate che io incontro dentro questi peculiari contesti asimmetrici non conta più nulla e il dispositivo vive di vita autonoma (si procede, in altri termini, per automatismi, atti burocratico-amministrativi e pratiche a-critiche). I nostri dispositivi amministrativi funzionano a tutti gli effetti come dei feticci, perché una volta avviati hanno una loro vita autonoma che nessuno ferma più, per cui il volontario notturno di turno, che deve somministrare le gocce di serenase, non si sottrae alla catena dal momento che è dentro un meccanismo che va da sé. In totale assenza di un atteggiamento critico, il neurolettico viene dato, a volte anche ad insaputa della persona che non riesce, pertanto, a comprendere una serie di cambiamenti fisici (i cosiddetti effetti secondari dei neurolettici) perché non sa che sta assumendo dei farmaci (ricordo una donna eritrea a cui le volontarie di una comunità scioglievano di nascosto gocce di neurolettico nella ministra o nel the pomeridiano). Ma anche quando si è di fronte ad un atteggiamento critico da parte del singolo operatore, questo non si sottrae dallo svolgere il compito assegnato.

BR: In alcuni tuoi lavori accenni ad uno spazio in cui i professionisti "sussurrano", è quello il momento in cui poter aiutare a non banalizzare e forse anche a riconoscere la violenza dell’astrazione burocratica di ciò che agiscono, alle volte in modo non problematizzato?

ST: Tutte le volte che incontriamo un piccolo tentennamento, un dubbio, dell’operatore, si apre allora lo spazio del dialogo. Non nego, però, che nella maggior parte dei casi la questione è legata soltanto a rapporti di forza. Provo a fare qualche esempio tratto dalle ultime esperienze condotte.

Se la neuropsichiatra sostiene che quella mamma nigeriana non è adeguata perché la bambina ha un problema al piede (che non appoggia bene) e la madre – invece di farla gattonare, come la dottoressa prescrive – la tiene subito in posizione eretta per farla camminare, quella madre non ha alcuno strumento né mezzo per esprimere il proprio punto di vista sulla figlia nel momento in cui la neuropsichiatra asserisce che il gattonamento è uno stadio universale dello sviluppo motorio di un minore. Dal momento che nella letteratura, il gattonamento non è affatto ritenuto una fase psicomotoria universale, propongo al giudice che mi interpella una lettura alternativa che fa da contrappunto al sapere neuropsichiatrico (andrebbe aggiunto di quella dottoressa, dal momento che, come dicevo, non è sostenuto su nessun manuale pediatrico che tutti i bambini devono gattonare prima di passare alla deambulazione eretta). Partecipo dunque dei rapporti di potere che esistono tra saperi, soprattutto di quei saperi che si propongono di “normalizzare” il comportamento stabilendo ciò che è sano e ciò che è malato, ciò che è normale e ciò che è anormale. Il sapere antropologico in un simile contesto si rivela debole perché critico: ha in altri termini poco valore agli occhi di un giudice che è in attesa di un’asserzione di verità. Non mi sottraggo, tento di complessificare, posso argomentare e aprire degli interrogativi intorno alla “certezza” del sapere neuropsichiatrico intorno al “gattonamento” (per tornare all’esempio di prima).

Mi è capitato di intervenire su questioni che voi, sono certa, riterrete banali, ma che sono quotidianamente in gioco nelle aule e nelle camere di consiglio di un tribunale per i minorenni: fare o non fare le treccine, ogni quanto, quante volte lavare il bambino, come svezzarlo, ecc. Quindi i saperi psicologici, medici e pediatrici portano il loro sapere prescrittivo, preconfezionato, monolitico, cristallino: un sapere che non lascia margine al dubbio. Io provo ad utilizzare, come un perno, come una leva, l’antropologia come contro-sapere per fare scricchiolare la convinzione del giudice che quanto detto sia l’unico modo possibile di descrivere e classificare la realtà. La curiosità intorno ad un sapere che “parla di usi e costumi…” ha presto lasciato il posto al fastidio nei confronti di un approccio che metteva in discussione decisioni prese sulla base di pregiudizi consolidati. Ad alcuni incontri non sono dunque più stata invitata a partecipare…

BR: Perciò è un campo di battaglia?

ST: In molti casi, portare il sapere antropologico fuori dal mondo accademico ha a che fare con una forma di combattimento, perché è in gioco una questione legata alle politiche della cultura nella nostra società e al riconoscimento di un sapere critico nell’arena sociale. Peraltro, ci sono spazi oggi in Italia che si prestano ad una ambiguità di fondo, soprattutto quando si parla di migrazione. Ci sono protocolli e decreti regionali, così come c’è un nuovo vocabolario su cui vengono costruiti i bandi e i progetti, che interpellano direttamente il sapere antropologico: lo evocano, lo citano, lo richiedono senza poi che questi “richiami” si concretizzino realmente in opportunità professionali per gli antropologi stessi. Un esempio alquanto eclatante è quello della Regione Piemonte. Nel 2010 vengono pubblicate delle linee giuda rivolte a chi opera nei servizi socio-sanitari per stabilire i criteri minimi da seguire quando si realizzano degli interventi volti a valutare le capacità genitoriali, anche quando la famiglia è straniera. Uno dei passaggi di queste linee guida, tra l’altro scritto a caratteri maiuscoli, concerne le famiglie miste e straniere. Recita: se almeno uno dei due genitori è straniero c’è bisogno di ricostruire il modello “antropologico-culturale” della famiglia. Ora, c’è da chiedersi: chi fa la ricostruzione del modello antropologico-culturale della famiglia? Dal momento che nessun antropologo è stato chiamato né attraverso un concorso né come consulente, il sapere viene evocato “a vuoto”, in assenza di una figura professionale formata. Ho notato per altro che, dopo le linee guida del 2010, una lettura attenta dei documenti (perizie, certificati medici, ecc.) fa emergere la ricorrenza di una frase che suona più o meno così nei certificati emessi: “preso atto che la famiglia è straniera; o preso atto che il padre è straniero o che la madre è straniera, abbiamo ricostruito il modello antropologico-culturale”; o ancora: “preso atto che la famiglia è straniera, si accerta che il modello antropologico-culturale non incide significativamente sui comportamenti” del padre, della madre o di entrambi. Arrivando alla fine di queste relazioni, sorge spontanea la domanda di come e quando sia stato ricostruito questo modello perché, in realtà, non c’è scritto nulla che possa far pensare ad un simile lavoro di analisi e approfondimento.

In un articolo pubblicato sulla rivista L’Uomo riprendo, per esempio, le parole di un perito, un medico-psichiatra, che proprio perché sa che è tenuto a fare la ricostruzione del modello antropologico-culturale del signore straniero che ha di fronte, inserisce nella perizia un paragrafo dal titolo: “La figura paterna nella cultura africana”. Questo passaggio peritale non è altro che un grumo di stereotipi e, tra l’altro, un vero e proprio lavoro di plagio, dal momento che il testo è il prodotto di un copia-incolla maldestro di un capitolo dal titolo “Il padre nella cultura africana”, tratto dal libro di Andolfi Il padre ritrovato [2]. Per dire che quel padre ivoriano non conosceva il modello culturale del padre nella cultura africana viene scomodato addirittura Malinowski, la matrilinearità e i suoi corollari.

Quando ci si trova a leggere una perizia dove il sapere antropologico viene così massacrato, così banalizzato, così ridicolizzato, come chiamare altrimenti questo processo se non combattimento (contro la superficialità, la banalizzazione, l’ignoranza, la malafede)? Che poi si perda non deve sorprendere più di tanto, perché non abbiamo alcuna autorevolezza rispetto a certe istituzioni pubbliche. Il mio spazio d’azione – così cerco di rispondere anche alla tua domanda sugli interventi che noi facciamo – resta il più delle volte confinato all’ambito della scrittura. Scrivo delle relazioni che poi invio al giudice o alla procura minorile. In questa scrittura altra rispetto ad un articolo, scrivo perché un contro-discorso possa venire letto da questi rappresentanti dell’istituzione.

La mia provocazione in quell’articolo era connessa al ruolo degli antropologi in questi processi. Se anche vi fosse un’apertura dei magistrati o dei giudici mi chiedo: “ma noi antropologi e antropologhe, risponderemmo?” Quando avevo lavorato con il padre ivoriano avevo inviato una mail a Dino Cutolo e ad altri colleghi che sapevo avevano lavorato in Africa subsahariana, per avere un loro parere e chiedere un aiuto[3]. Avevo scritto a Fabio Mugnaini e a Simonetta Grilli e ad altri colleghi che si sono occupati di famiglia. Ricordo anche un coinvolgimento di colleghi del mio dipartimento (CPS, Università di Torino) e, molto bene, ricordo la risposta di un collega sul fatto che come antropologi non possiamo dire nulla su quel padre ivoriano. Cioè, se anche noi potessimo parlare per analizzare e comprendere le trasformazioni della cultura tra gli Akan, non potremmo comunque pronunciare nulla riguardo le traiettorie individuali di un padre ivoriano akan. È, e non potrebbe essere altrimenti, una sfida interna al nostro sapere, perché qualche collega potrebbe avvertire in questi scenari il rischio di una essenzializzazione dell’altro. Resta per me prioritario capire che, per aiutare quel padre ivoriano a vedere riconosciuto un suo diritto di genitorialità, dove entro nella melma …

BR: Usando anche queste situazioni come grimaldelli

ST: Si, che iniziano a fare scricchiolare le certezze del giudice, che iniziano a far pensare al giudice che forse nel procedimento peritale si deve interpellare qualcuno che abbia una doppia formazione. In questi anni a Torino abbiamo visto che a forza di essere presenti in queste sedi e attorno a questi tavoli, i provvedimenti pubblicati hanno richiesto, per esempio, che il perito fosse uno psicologo con competenze antropologiche oppure hanno visto affidare l’incarico a due professionisti, uno psicologo e un antropologo. Sono felice che si sia aperto uno spazio, sebbene sia altrettanto consapevole che il compito da svolgere è tutt’altro che semplice. Si dovrà comprendere come utilizzare e veicolare un sapere critico, che decostruisce, dentro delle istituzioni che chiedono ai saperi che qui trovano spazio di essere “certi” e volti a determinare i destini delle persone.

BR: La vita della gente.

ST: È una situazione in cui si trovano coinvolti molti giovani colleghi, neolaureati, che operano a vario titolo, per esempio, nell’accoglienza Sprar. Quando si raccolgono e poi leggono le biografie dei richiedenti asilo emerge quel “capitale culturale” che, per esempio, connette le questioni legate alla terra e una stregoneria attuata dallo zio materno. In questi testi – che sono relazioni, memorie, moduli – si trovano i tentativi di tradurre un vocabolario contaminato, spurio. C’è tutto un linguaggio antropologico da veicolare ai membri delle commissioni territoriali intorno a temi che sono stati e ancora sono assi portanti della disciplina. Li incontriamo, qui, strettamente legati al destino di persone che verranno o meno regolarizzate a seconda della nostra capacità di “tradurre” le loro esperienze.

Per terminare, ritorno sul fatto che se qualcuno di voi leggesse una relazione etnopsicologica scritta da me per una donna nigeriana e inviata al giudice che deve valutare la sua capacità genitoriale, la vostra potenziale critica potrebbe ruotare proprio intorno alla reificazione di alcune nozioni; laddove negli articoli cerco di sviluppare la complessità in gioco e sono alla ricerca di una forma di scrittura che possa restituire plasticità e dinamicità al discorso, la scrittura finalizzata a questi contesti di azione impone spesso al discorso una torsione che cristallizza le cose.

BR: Ti ringrazio perché su questo nodo abbiamo avuto molte occasioni di discutere. Immagino ci siano altre persone che vogliono proseguire la conversazione.

Barbara Pezzotta: Quello che dici a proposito dei giudici succede anche con gli assistenti sociali, o la commissione territoriale, d'altra parte la battaglia è anche con gli antropologi, perché per tanto tempo tutto ciò che era applicativo era considerato come eretico. E anche adesso trovo che si faccia sempre una particolare fatica a capire che oltre a de-costruire si deve anche ri-costruire. L'intervento antropologico può aiutare gli operatori, i terapeuti, gli assistenti sociali, anche a co-costruire una rete di significati, ma è difficile. L’operatore deve imparare a cogliere segnali di allerta, quando non sta capendo una situazione o c’è qualcosa che non va. Spesso gli operatori non la sanno leggere. A volte, quando un operatore, un medico, uno psicologo arriva a capire che c’è qualcosa che non va, non trova sponde perché non ci sono antropologi nei servizi. Esistono eccezioni, ad esempio nello Sprar troviamo antropologi, che però svolgono il ruolo dell’operatore legale e non sempre bene, non essendo loro avvocati. Quindi, le competenze antropologiche non vengono utilizzate o messe a sistema. In questo modo non divengono più nemmeno una sponda su cui contare.

Federica Tarabusi: Volevo chiederti della traducibilità – più che dell’accessibilità — dei linguaggi professionali e della spendibilità dell’approccio antropologico nei servizi. Per riprendere ciò che diceva Barbara: che tipo di supporto puoi fornire all’operatore? Come coniughiamo il nostro approccio critico, decostruttivo, contestuale, con le pressanti domande operative degli operatori e del mondo dei servizi? Il loro bisogno di efficacia e di semplificare.

Ivan Severi: Io non mi sono mai occupato di migrazione. Quello che mi interessa, e che mi sembra che tutto questo ragionamento faccia emergere, è come gli antropologi possano essere i migliori nemici di loro stessi. Me ne rendo conto nelle commissioni che stiamo cercando di mettere in piedi nell’ANPIA. A noi interesserebbe costruire delle commissioni che siano propositive e contribuiscano a definire quello che è la figura, le competenze in diversi ambiti applicativi dell’antropologia. Noto purtroppo che la difficoltà enorme è, da parte dei membri delle commissioni, quella di andare oltre questo approccio totalmente decostruttivo e problematizzante, che caratterizza la formazione stessa dell’antropologo. E questo è dovuto al legame con l’accademia, per cui si teme comunque la valutazione da parte di un gruppo che giudica il lavoro di tutti gli altri antropologi che stanno fuori. Essendo tutti quanti giovani antropologi, che cercano di sopravvivere in qualche modo da un lato, con la vaga speranza di entrare in accademia, e di doversi costruire una posizione al di fuori dall’altro, sanno che non si possono esporre a determinati tipi di critiche che, automaticamente, andrebbero a danneggiarli nel caso di reale possibilità di accesso in università. Quindi non mi interessa se come antropologo in un contesto di questo tipo mi sto mettendo nelle condizioni di essere criticato dagli altri antropologi. Perché, sinceramente, vedendo la condizione in cui versa l’antropologia italiana, non credo che quello che hanno da offrire, anche da un punto di vista professionale, sia stato così produttivo, utile, ed efficace.

BR: Beh, un po’ categorico! Ivo?

Ivo Pazzagli: Nella tua esperienza professionale, che cosa l'antropologia ha da imparare da un approccio clinico? Perché questo, a mio avviso, è sempre stato un punto chiave. Da questo snodo, tra approccio clinico e codice interpretativo antropologico, cosa possiamo apprendere che può fornire qualche strumento per – come diceva Federica — aiutare gli operatori a porre la domanda giusta?

Giovanna Guerzoni: Da molti anni svolgo ricerca di campo in diversi contesti educativi (scolastici ed extrascolastici), un’arena dove oltre a “figure strutturali” come insegnanti, insegnanti di sostegno entrano diverse altre figure professionali dallo psicologo scolastico, all’educatore sociale, al mediatore culturale, all’assistente sociale fino al neuropsichiatra infantile e, in alcune circostanze si inserisce, infine, questo – potremmo dire – “extraterrestre” che sarebbe l’antropologo (dell’educazione). Al di là della complessità che caratterizza i contesti scolastici, al pari di altri contesti istituzionali la scuola si rivela, oggi, come un’arena attraversata da differenziali di potere e da linguaggi professionali molto diversi tra loro, che fanno del contesto scolastico un oggetto di risignificazione continua. Anche in ambito scolastico, dunque, la presenza di diverse figure professionali e delle loro rappresentazioni della scuola e della relazione educativa fa della scuola il luogo di reti di potere, con forti analogie – mi sembra – con quanto raccontavi sulla relazione di cura. Quando noi lavoriamo con le scuole, cercando di spiegare come la dispersione scolastica non possa essere letta esclusivamente come l’effetto di un processo educativo fallimentare a livello individuale, ma come un possibile effetto prodotto dal sistema stesso, un prodotto del processo educativo stesso, si produce nei nostri interlocutori un “effetto scioccante” che immediatamente viene spesso “derubricato” a questione di ordine gestionale o organizzativo, finanziario. In questo “campo di battaglia” che è la scuola, certi saperi sono più socialmente riconosciuti di altri, come quello dell’approccio psicologico…, così la prima volta che ci si siede al tavolo di una ricerca-azione in ambito scolastico, l'antropologo deve dimostrare chi è e perché è lì, deve legittimarsi come figura professionalmente competente rispetto al contesto in cui si propone, la scuola appunto. Né lo psicologo, né l’insegnante, né l’insegnante di sostegno hanno questo “obbligo”. Spesso, il motivo che giustifica in termini di visibilità sociale l’entrata a scuola dell’antropologo è la presenza di alunni stranieri, la difficoltà di comunicazione “fra culture”, mentre appare quasi fuori luogo un accompagnamento a una riflessività critica e autocritica rispetto alla non neutralità culturale dell’organizzazione scolastica, dei suoi saperi e delle modalità di trasmissione culturale. Nella multi-vocalità delle professioni che ormai compongono i contesti scolastici ed educativi, può sembrare che l’ultimo dei pensieri della scuola sia il destino dei suoi allievi, i quali, soprattutto in caso di disagio, diventano progressivamente oggetto di diversi progetti e di sguardi professionali differenti e, nonostante questo, vanno in dispersione scolastica ugualmente.

Maddalena Cammelli: Hai detto che scrivi per te, ma scrivi anche degli articoli scientifici. In che modo tuteli i racconti e le persone che chiami in causa dal momento che comunque scrivi da una posizione situata in cui le persone possono essere rintracciate?

Francesca Crivellaro: Nella scrittura noi ci poniamo spessissimo il problema delle categorie che usiamo per coloro che riteniamo vulnerabili, quindi la donna nigeriana, che magari è anche a rischio di sottrazione del figlio nel tuo caso, ma, ti interfacci anche con altri professionisti, come tuteli questa altra parte? Hai mai rischiato una denuncia da parte di altri professionisti?

ST: Comincio a rispondere da quest’ultima questione, e poi via via riprendo le altre. La questione della scrittura e dell’anonimato ci ha molto interrogato. Ho peraltro scritto un breve articolo che vi posso mandare intorno a quanto ora dirò. In tutte le situazioni in cui ho scritto intorno a storie di chi è stato anche mio o mia paziente, ho protetto l’anonimato cambiando il nome o altri dati sensibili della biografia, ma ho sempre negoziato con le mie interlocutrici o interlocutori, con le persone insomma se potessi scrivere “su di loro” (o meglio, sulla nostra relazione). Le donne nigeriane sulle quali ho abbondantemente scritto in questi ultimi anni, sanno che io scrivo. Non ho bisogno con nessuna di loro di un pezzo di carta firmata di “autorizzazione”. È un rapporto che ho costruito in tanti anni di relazione e mi sento molto serena e tranquilla. Se scrivo poi in inglese o in una lingua che loro possono comprendere, le occasioni di condivisione sono ancora più profonde perché lascio da leggere direttamente il materiale. Se facciamo delle interviste, dei filmati, li riguardiamo insieme e decidiamo insieme dove poterli fare vedere, a chi … Molte volte ho chiesto loro se potevo usare le loro vicende (scritte o filmate) per dei corsi di formazione in tribunale oppure in ospedale. È qualcosa che costruisco con loro.

Per gli articoli che ho pubblicato mi sono dovuta preoccupare maggiormente di rendere anonimi i professionisti che non le persone con le quali faccio ricerca e che ho incontrato nel rapporto clinico. La questione dell’anonimato mi ha toccato anche da un altro punto di vista – ma sarò molto rapida su questo – perché una collega antropologa, che aveva fatto il dottorato al Centro Frantz Fanon tra il 2001 e il 2003 e che si è addottorata a Berkeley, Cristiana Giordano, ha pubblicato nel 2008 un lavoro su American Ethnologist in cui ho trovato del tutto improprio l’uso di un escamotage etnografico che ha fatto delle donne incontrate un’unica donna e storia di vita (Joy). Ne ho scritto, su una rivista francese e ora sto scrivendo qualcosa di più puntuale su un lavoro che presto uscirà in Italia[4]. Questa esperienza – che non so se potrete comprendere – l’ho vissuta sapendo che io ero allo stesso tempo soggetto e oggetto dell’osservazione. Cristiana ha fatto un’etnografia del Centro Frantz Fanon e ha contemporaneamente osservato le donne straniere in difficoltà e gli operatori. Ero, dunque, per lei in qualche modo una sorta di informatrice o di persona sulla quale faceva ricerca. Il disorientamento non è stato di non riconoscere me, ma di non riconoscere nessuna donna in quella che lei nell’articolo chiamava “Joy”. L’ho letto e riletto più volte quell’articolo. Più lo leggevo più mi chiedevo: “Ma di chi sta parlando? Questa donna non è mai passata al Centro Fanon”. Nel rileggere e rileggere ho capito quale era stato l’espediente narrativo che lei aveva fatto: aveva messo insieme più biografie per rendere anonima ogni singola persona. Ho dunque riconosciuto nella vicenda giuridica raccontata (della denuncia e del rapporto con la questura) una donna; nella descrizione del sintomo un’altra donna; nelle scelte e negli atti terapeutici un’altra donna ancora... Erano cinque o sei biografie ricomposte in un’unica storia: la storia di Joy. Quando abbiamo avuto modo di confrontarci, le ho detto che trovavo improprio questo modo di “scrivere l’Altro”, espropriandolo di qualunque soggettività e perdendo ogni profilo intimo entro i contorni di una “chimera”; improprio anche il modo di scrivere del dispositivo etno-psichiatrico, perché se l’obiettivo è comprendere come funziona la cultura in un dispositivo di cura, non si può tenere separato l’atto terapeutico dalla specificità della vita di ogni singola persona.

BR: Esiste la “rigeur du qualitatif”, direbbe Olivier de Sardan, e lei lo ha tradito.

ST: Cristiana ha sostenuto che è una cosa che negli Stati Uniti si fa continuamente, che si è confrontata con i tutor antropologi e anche con alcuni colleghi psicanalisti, ricevendo conferma da loro sulla regolarità della procedura.

BR: Adesso si parlerebbe di Fake News

ST: Per parte mia posso solo dire che mi ha amareggiato questa storia perché dipinge un dispositivo rendendolo incomprensibile e per certi aspetti ridicolo. Sarò più precisa: se tu scrivi che la signora ha una certa storia migratoria e fa denuncia in questura a Torino; che arriva al Centro Fanon in un momento di sofferenza acuto ed è appena stata dimessa da un reparto psichiatrico dopo un trattamento sanitario obbligatorio; che è ancora sotto neurolettico e esprime ancora un delirio florido... Se in queste condizioni l’operatore del Centro Fanon – io, Roberto o qualunque altro collega – le consiglia di andare a vedere una mostra di cultura africana – come è stato da Cristiana scritto per asserire che la cura nel dispositivo etnopsichiatrico intende riconnettere gli immigrati con la loro cultura d’origine – è evidente che si descrive una “farsa”. Non si “cura” certo con una mostra di statue una persona che sta manifestando una deriva psichica importante.

BR: Pensavo che in Stati Uniti per questo genere di problema si denunciasse...

ST: La risposta che ho ricevuto è che sempre più nei Dipartimenti, anche di antropologia, si danno indicazioni metodologiche simili per rendere irriconoscibili i soggetti della ricerca. A pensar male, potrei suggerire che questo modo di procedere è una chiara difesa dell’istituzione: per paura che i nostri interlocutori possano dire un giorno che non si sono sentiti descritti o rappresentati giustamente, li si rende irriconoscibili in modo da evitare sul nascere eventuali conflitti o denunce. Non penso di dover aggiungere altro su questo punto, se non dire che io sto cercando la relazione su un altro piano, un piano in cui non ci sia bisogno di documenti firmati e protocollati. Ultimamente una delle signore con cui lavoro da dieci anni mi ha detto: “Simona basta occuparti del feticcio, alla fine ci cadrai dentro fino al collo e alla fine questa cosa ti si attorciglierà in torno al collo, si rivolgerà contro di te, basta!”. Era il suo modo per proteggermi, per difendermi. Tutto è nato perché avevo condiviso il mio scritto e le chiedevo alcuni consigli sulle traduzioni fatte di alcune parole. Sono, più di ogni altra cosa, alla ricerca di questi scambi.

Vado ora alle altre questioni, tutte centrali e ben ricche.

È vero che tutto il sistema dell’accoglienza, tutto il welfare che ora lavora con gli immigrati, vede coinvolto un numero significativo di antropologi. La migrazione è diventato un business e velocemente si è compreso che da parte di alcuni che questo business poteva essere sfruttato e diventare mercato del lavoro per giovani italiani. Non si chiede però qual è il sapere e la competenza, e si usa l’operatore in un ruolo che non corrisponde a quello per cui gli antropologi e le antropologhe hanno studiato.

BR: A volte è anche un’opportunità per qualcuno di formazione antropologica essere reclutato come educatore, permette di avere accesso a contesti che sono molto difficili da raggiungere per gli antropologi. Viceversa, a volte una formazione antropologica permette allo stesso tempo di fare meglio l’educatore.

ST: Bisogna capire quando si riuscirà a creare dei posti di lavoro per antropologi che vengono chiamati a fare gli antropologi. Questo è un problema tutto italiano. Ivan certamente saprà più di me, perché nel fondare l’Associazione avrà fatto tutto un lavoro anche a livello europeo per capire come sono inquadrati certi profili professionali. Certamente questo è un problema italiano molto sentito, perché – sebbene l’antropologia sia sempre stata applicata – in Italia non è mai uscita dall’accademia. Penso si possa concordare sul fatto che non c’è stato un momento in cui la disciplina è diventata applicata. Non sbaglio se ricordo che i sistemi di parentela classificatori di Morgan venivano da lui studiati perché già la questione era quella di capire la partizione delle terre e come in sede di tribunale potere garantire a determinati gruppi familiari e clanici di avere diritto a delle terre. È un passaggio della storia della disciplina che ricordo sempre a tutti gli studenti: che l’antropologia nasce come sapere applicato. Diciamo che è un’eccezione della storia il fatto che sia diventata non applicata. È stata certamente anche applicata "nel modo peggiore", cioè applicata al seguito delle amministrazioni coloniali, dell’esercito…

IS: Margaret Mead sosteneva che il 95% degli antropologi americani fossero impegnati nella seconda guerra mondiale.

ST: Nel lavoro di una meno nota storica, Jordanna Bailkin, di cui ho recentemente tradotto un lavoro per “AM”, l’autrice sostiene che negli anni ‘60 e ‘70 assistenti sociali o educatori erano neolaureati di antropologia e sociologia, i quali usciti dalle università trovavano posti di lavoro in quei settori. È un sapere che è sempre uscito e che ha occupato a pieno titolo degli spazi di professionalità in cui si determinava il destino delle persone.

BR: Per quello che non bisogna rimuovere questa legacy

ST: No certamente. Bisogna poi capire che direzione facciamo prendere alla sua applicazione. Ricorderete tutti l’articolo pubblicato su La Repubblica a firma di Marino Niola, “Gli ultimi antropologi”, che si concludeva con l’invito a partecipare alla call for job che l’esercito italiano aveva appena aperto per gli antropologi. Non è di secondaria importanza, tutt’altro, scegliere il committente, perché questo denuncia in qualche modo il significato che diamo al termine “antropologia applicata”. Un’antropologia applicata che non sia al contempo militante e attivista è un’antropologia messa al servizio dei poteri forti.

BR: La SIAA è un contenitore plurale che accoglie dal militante al consulente di diverse organizzazioni

ST: Rispondo ora a Ivan, velocemente. “I nemici degli antropologi sono gli antropologi”: in parte sì, ma penso che siamo in un’epoca nuova, dove certi poteri sono diventati più “innocui” (per quanto determinino ancora le nostre vite accademiche). Penso che a differenza di dieci o quindici anni anni fa ci siano spazi maggiori per creare alleanze trasversali, sia nel mondo dell’accademia sia all’esterno.

Ho però il timore che, nel momento che si professionalizza questo sapere – per quanto sia giusto non pensarlo come solo critico e decostruttivo – si rischi di “tecnicizzarlo” al pari di altri saperi limitrofi come la psicologia. È la disciplina e chi è coinvolto nel processo che deve restare vigile perché questo non accada.

BR: In questo senso la domanda di Ivo è come lo sguardo clinico unito a quello critico dell’antropologia possa diventare qualcosa che concretamente aiuti a lavorare in certe situazioni

ST: Dipende, però, a quale approccio clinico si guarda. Nel senso che, ripeto, dal mio punto di vista anche molta della psicologia dinamica è diventata puro tecnicismo. Con le psicoterapie brevi, che fissano già in quattro incontri i termini dell’incontro; con l’uso acritico degli strumenti psicodiagnostici (i test) … non c’è più spazio per l’ascolto né per il rispetto dei tempi dell’altro che abbiamo di fronte. Bisogna, dunque, stare attenti a individuare bene a quale sapere ci rivolgiamo e da quali strumenti complementari ai nostri attingiamo. Per quanto mi riguarda, quanto io ho “preso” dalla formazione psicoterapeutica e psicanalitica è l’attenzione alla storia individuale. E per rispondere ad alcune delle vostre domande ritengo che lo strumento di cui gli antropologi si dovrebbero appropriare, è lo strumento della supervisione, della consulenza, più che non della formazione. La formazione è una sorta di cavallo di troia. Si entra dentro un contesto, i tuoi interlocutori pensano che tu abbia degli obiettivi formativi – che poi è ciò per cui veniamo spesso chiamati – e lentamente inizi a introdurre gli strumenti della supervisione. La formazione in sé non modifica molto le abitudini delle persone (operatori, volontari, ecc.). Non producono cambiamento nelle Istituzioni e lo dico dopo vent’anni che rispondo comunque a molte richieste di formazione.

BR: Se no, a distanza di vent’anni che lo facciamo, non saremmo lì a ripetere le stesse cose.

ST: Può certamente esserci un limite mio nel modo di “formare”, ma penso che fino a quando le persone non si coinvolgono nella discussione di situazioni reali, nell’analisi delle relazioni sociali che innescano e nelle quali restano invischiati … La formazione declinata nella storia di un singolo caso concreto può dischiudere a un ripensamento, alla ricezione di una nuova proposta, alla rimessa in discussione del proprio modo di agire

BR: La supervisione di questo stile con affiancamento può essere anche in un gruppo di lavoro

ST: Si certamente ed è uno strumento tipico della psicologia clinica. Potremmo tentare di trasportarla nella nostra metodologia di intervento perché ha più potere trasformativo e performativo. La supervisione è il momento in cui quel sapere si declina in una pratica, in una storia di vita, in una biografia, e l’operatore si rende conto di come quel concetto può essere utilizzato, come si concretizza nell’esperienza.

BP: Questo però apre una questione legata a quello che diceva lui, cioè, supervisione io la faccio, e parto da un singolo caso e poi da lì si parte. Il punto è che poi quando vai a ragionare con operatori e con servizi, al dunque supervisore uguale psicologo.

ST: Non è che la supervisione debba essere realizzata in un unico ambito professionale. Siamo anche noi che dobbiamo costruire un vocabolario professionale.

BR: Io sto supervisionando un caso di accoglienza molto circoscritto in un contesto del privato sociale e sono d’accordo dell’efficacia maggiore che nel semplice intervento formativo.

BP: Anche io, ma solo che non deve essere chiamato supervisione. Perché la figura professionale deputata a fare supervisione è lo psicologo.

ST: Il problema qui si sposta su una questione connessa alle regole degli Ordini professionali, e dunque si dovrebbe come prima cosa vedere se l’Ordine degli psicologi ha “vincolato” in qualche modo lo strumento della supervisione. Nel quale caso si potrà individuare un termine meno connotato. Anche per la consulenza tecnica d’ufficio è la prassi che ha “fondato” una abitudine – cioè che il perito sia sempre uno psicologo o uno psichiatra – ma ci sono piccoli segnali di cambiamento in alcuni Tribunali che permettono a chi è antropologo o antropologa di avere degli incarichi peritali.

IS: Questo è un problema di politica culturale

ST: Siamo noi che, entrando dentro un dato contesto e dispositivo, dobbiamo creare una nuova politica culturale perché quella dicitura non sia più sinonimo soltanto di una professione.

C’è un’ultima cosa che volevo dire, che poi spiega il perché abbiamo fondato un servizio come il Centro Frantz Fanon. Tra il 2012 e il 2014, su Transcultural Psychiatry sono state pubblicate delle linee guida intorno al tema del “formulario o questionario” culturale. Nell’introduzione al numero del 2012, viene sottolineato il motivo di una simile “politica culturale”: l’operatore professionale “busy”, molto impegnato, che non ha tempo per porre questioni potrà maneggiare uno strumento semplici e semplificato, che gli farà risparmiare tempo. Il sapere antropologico fornisce dunque domande, suggerimenti e tematiche che vanno a comporre lo strumento: la persona porrà dei segni sulle caselle che rispondono alla domanda posta. Dal mio punto di vista, il discorso dell’antropologia deve poter produrre effetti di cambiamento e non piegarsi all’esistente, a quanto è routine e prassi consolidata. L’operatore o l’operatrice che seguono questa nuova prospettiva e si lasciano contaminare dall’antropologia hanno poi bisogno di un accompagnamento costante, proprio per non ridurre ogni intervento a mera riduzione del tempo della relazione. È fondamentale non essere soli, lavorare in un gruppo, essere sempre presenti, per permettere all’operatore di metabolizzare con calma il cambiamento di prospettiva suggerito e seguito.

IP: Bisognerebbe che gli antropologi si mettessero un po’ di più a ragionare su cosa vuole dire avere a che fare con compiti centrati sulla supervisione e sulla consulenza, con o all’interno delle organizzazioni; un sapere che si può e si deve costruire a partire da una riflessione fondata su concrete esperienze di "campo".

BR: Bisogna formare anche ad applicare. Grazie a tutti, grazie a Simona.



[1] Questa "conversazione" costituisce la registrazione, rivista dall'intervistata e dagli altri partecipanti, di un incontro del laboratorio permanente di Antropologia Applicata (coordinato da Bruno Riccio, Federica Tarabusi e Selenia Marabello dal 2014) svolto il 16 Marzo 2017 presso il Dipartimento di Scienze dell'Educazione dell'Università di Bologna. Alla discussione seminariale hanno partecipato: Maddalena Gretel Cammelli, Francesca Crivellaro, Nicoletta Landi, Alessandra Gribaldo, Giovanna Guerzoni, Ivo Giuseppe Pazzagli, Barbara Pezzotta, Ivan Severi.

[2] Si rimanda a Taliani, S. (2014) Non esistono culture innocenti. Gli antropologi, le famiglie spossessate e i bambini adottabili. L'Uomo, 2, pp. 45-65

[3] Ringrazio qui Alessandro Gusman per avermi suggerito la “pista” del plagio, avendo individuato alcuni stralci della perizia che erano stati copiati.

[4] Taliani S (2015) “Histoires comme ça”, Sociétés politiques comparées, 37, www.fasopo.org (Fond d’analyse des sociétés politiques).